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Un sudore freddo mi coprì tutto il corpo. “Chi sono? Perché?” mi chiesi.

Rimasi seduto per ore mentre fuori l’oscurità si infittiva, solo nel mio cubicolo tranquillo e climatizzato tutto cuoio e acciaio cromato, dietro la mia bella scrivania di mogano, e fissai il mio profilo personale sullo schermo del computer. Non che ci fosse molto da fissare. Nomi. Date. Scuole. Tutti dati privi di senso, che non suscitavano il benché minimo barlume di ricordo.

Guardai lo specchio metallico sulla parete di fronte. John G. O’ Ryan mi restituì lo sguardo: uno sconosciuto dai folti capelli scuri, una faccia anonima dai tratti leggermente mediterranei (perché quell’O’Ryan. allora?), un tipo sul metro e ottanta di corporatura snella in completo blu da dirigente, camicia beige e cravatta bordò.

La scheda diceva che a scuola ero stato un buon atleta. Mi sentivo ancora forte, in forma. Ma decisamente nella media. Avrei potuto mescolarmi a una folla e scomparire facilmente nell’anonimato.

“Chi sono?” Inevitabilmente, avevo la sensazione di essere stato messo lì, di essere stato piazzato in questa vita, solo tre anni prima da qualche forza o entità che aveva cancellato tutti i ricordi della mia esistenza precedente.

Dovevo scoprire chi, o cosa, mi avesse messo in una posizione del genere. E la chiave del mio passato era Aretha; lei sapeva, e voleva che anch’io sapessi. Il cuore mi batteva forte, respiravo in fretta, ansimavo quasi. Cominciavo a provare finalmente qualche stato emotivo, e mi ci abbandonai per parecchi minuti. Poi, però, con uno sforzo cosciente, abbassai il livello dell’adrenalina nel sangue, rallentando il ritmo del cuore e del respiro.

Ora intuivo che la bomba era destinata a me. Non ad Aretha né a nessun altro. Già. Proprio così. Qualcuno aveva tentato di uccidermi. Con la certezza assoluta dell’istinto, mi resi conto che cercando di scoprire le mie origini sarei andato incontro a pericoli mortali. Ma non potevo tirarmi indietro. Dovevo sapere. E mi resi conto che, chiunque fossi, qualunque fosse il mio passato, nella mia esistenza precedente dovevano aver recitato un ruolo importante non solo Aretha ma anche quei due uomini… l’angelo e lo spirito delle tenebre. Uno di loro aveva tentato di uccidermi… forse tutti e due.

3

La mattina successiva all’attentato arrivai in ufficio alle nove in punto, un po’ più tardi del solito. Dovetti schivare le domande della mia segretaria e di parecchi colleghi che avevano visto il servizio nel notiziario televisivo serale o che stavano sventolando quotidiani del mattino con la mia foto in prima pagina, tra i morti e i feriti.

Scivolai dietro la scrivania e ordinai al mio computer di telefonare al St. Mercy Hospital. Il computer della segreteria dell’ospedale mi annunciò, nei toni cordiali di una brava attrice, che gli orari di visita erano dalle 14 alle 16 e dalle 18 alle 20. Le condizioni della signorina Promachos erano buone. Non poteva venire all’apparecchio perché il medico la stava visitando.

Lasciai un messaggio, dicendo che sarei andato là alle 2 di quel pomeriggio. Quindi mi tuffai nel lavoro, sbrigandone una mole enorme. Per chissà quale sciocca ragione, mi sentivo meravigliosamente. Era come se mi avessero tolto un velo dagli occhi, o si fosse spalancata di colpo una finestra su un incantevole paesaggio. Sì, mi rendevo conto che la mia memoria presentava lacune paurose, che ignoravo chi fossi e perché mi trovassi lì. Mi rendevo conto che la mia vita probabilmente era in grave pericolo. Eppure perfino questo fatto per me era meraviglioso ed eccitante. Ventiquattr’ore prima ero un automa privo di emozioni; non immaginavo nemmeno che la maggior parte della mia memoria era stata cancellata. Mi limitavo a vivere meccanicamente, a vegetare. Respiravo, però non avevo sentimenti veri. Adesso era come emergere sulla superficie illuminata del mare dopo aver passato molto, troppo tempo nell’oscurità degli abissi.

Lavorai anche durante la sosta per il pranzo; ero troppo eccitato per mangiare. Come un adolescente che si precipitasse al suo primo appuntamento, lasciai l’ufficio poco prima delle 2 e chiamai con un cenno un taxi, agitandomi poi nervosamente mentre la vettura si insinuava a fatica nel traffico pomeridiano diretta al St. Mercy.

— La signorina Promachos se n’è andata circa mezz’ora fa — disse l’infermiera all’ingresso della corsia di Aretha.

Rimasi paralizzato, quasi avessi ricevuto una mazzata in piena fronte. — Andata…?

— Sì. Siete il signor O’Ryan?

Annuii.

— Ha lasciato un messaggio per voi. — L’infermiera mi porse un pezzo di carta piegato. C’era scritto il mio nome, frettolosamente, in modo errato. Aprii e lessi: Non c’è tempo. Il tipo tenebroso… Poi, in uno scarabocchio quasi illeggibile: Sotterranea.

Appallottolai il foglio.

— Quando avete detto che se n’è andata?

L’infermiera era una vecchia volpe. Dall’espressione dei suoi occhi socchiusi capii che non voleva trovarsi invischiata in un triangolo amoroso.

— Quando? — ripetei.

Guardò l’orologio digitale sulla parete. — Ventotto minuti fa, per la precisione.

— Chi c’era con lei?

— Non ho afferrato il suo nome. È stata lei a firmare per essere dimessa.

— Che tipo era?

L’infermiera esitò, in preda a un conflitto interiore. Poi: — Un tipo grande e grosso. Non alto come voi, ma… grosso. Un vero armadio, se rendo l’idea. Sembrava un sicario della Mafia… anzi, peggio. Aveva un che di… minaccioso. Spaventava a prima vista.

— Carnagione scura, capelli neri, sopracciglia folte.

— Proprio lui — annuì l’infermiera. — Solo che… la signorina Promachos non sembrava spaventata. A me faceva paura quel tipo, a lei no. Ho avuto l’impressione che lei lo conoscesse bene, come se fosse uno della sua famiglia.

— Bella famiglia.

L’infermiera non aveva idea di dove fossero andati. Era contro il regolamento dell’ospedale darmi l’indirizzo di Aretha, ma la donna lo fece ugualmente e non dovetti neanche insistere tanto. Il tipo scuro l’aveva davvero spaventata a morte.

Presi un altro taxi e diedi l’indirizzo fornitomi dall’infermiera, un posto del vecchio centro cittadino, vicino al ponte di Brooklyn. L’autista, un latino dell’America Centrale, finì col perdersi nel labirinto di viuzze del Lower East Side. Lo pagai e feci parecchi isolati a piedi, cercando l’appartamento di Aretha.

Un indirizzo del genere non esisteva. Un’informazione falsa. Mi fermai a un incrocio, cominciando a sentirmi un po’ vistoso nel mio completo mentre tutti gli altri lì attorno portavano jeans, tute, magliette, e addirittura scialli che un tempo erano stati tovaglie. Non avevo paura di subire un’aggressione, anche se era l’ambiente giusto. Ero troppo concentrato nel tentativo di capire come mai Aretha avesse dato all’ospedale un indirizzo inventato. Ero certo che l’infermiera mi avesse detto la verità; era stata Aretha stessa a contraffare l’informazione.

Sotterranea. Cosa aveva voluto dire con quella parola? Guardai l’ora. Aveva lasciato l’ospedale da quasi un’ora. In un’ora avrebbe potuto andare da qualsiasi parte, in quella metropoli brulicante.

— Ehi, bello il tuo orologio, amico.

Sentii la punta di un coltello contro la schiena, e l’alito fetido di chi lo impugnava mi scaldò il collo.

— Mi piace proprio quest’orologio, amico. — Il tono era basso, minaccioso.

Non avevo voglia di farmi rapinare in una strada affollata, e in pieno giorno. L’idiota mi si era appiccicato alle spalle, premendomi il coltello tra le reni, cercando di alleggerirmi senza che nessuno se ne accorgesse.