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— Forza, dammi l’orologio, faccia di merda, e tieni la bocca chiusa.

Alzai le mani, quasi intendessi sfilarmi l’orologio dal polso, poi ruotai di scatto, gli mollai una gomitata nell’addome e lo colpii di taglio sul setto nasale. Il coltello cadde a terra. La gomitata gli aveva mozzato il respiro, così l’aggressore non poteva nemmeno gridare. Si accasciò come un sacco vuoto, col naso rotto, mentre il sangue gli zampillava sugli stracci e sul cemento. Lo afferrai per i capelli, drizzandogli la testa. La faccia era una maschera di sangue.

— Levati dai piedi prima che perda la pazienza — gli dissi, allontanando con un calcio il coltello.

Ansimando, gli occhi sbarrati dal dolore e dallo shock, si alzò barcollando e si trascinò via. Alcuni passanti mi guardarono, ma nessuno disse una parola o accennò a intervenire. La città nella sua luce migliore.

Sotterranea… Sentii sotto i piedi lo sferragliare di un convoglio della metropolitana, lo stridore delle ruote sui binari. Sotterranea, un termine inglese che indica la metropolitana. C’era una stazione della metropolitana appena fuori dall’ingresso dell’ospedale. Guardando il lato opposto della strada, notai l’entrata di un’altra stazione. Attraversai di corsa, suscitando un coro di clacson e imprecazioni, e mi precipitai lungo la scala. Nel sudiciume e nel tanfo di urina della stazione, mi affrettai da una pianta delle linee all’altra finché non ne trovai una ancora leggibile sotto gli arabeschi di vernice spray. Sì, una linea rossa collegava la stazione vicino all’ospedale a questa fermata centrale.

Erano arrivati lì in metropolitana, ed erano scesi. Ne ero sicuro. Era questo il significato del messaggio frettoloso di Aretha.

E adesso? Dov’erano andati, una volta raggiunta quella stazione? Un treno si arrestò cigolando. Le quattro carrozze erano decorate con vivaci affreschi, disegni satirici, e le firme degli artisti. Mi ritrovai a osservare le parole sulle fiancate, in cerca di un messaggio. Sciocca disperazione. Le porte si aprirono sibilando, e tutti scesero. Mi avviai verso la prima carrozza, ma un negro con l’uniforme dell’Azienda Municipale Trasporti mi chiamò:

— Capolinea. Questo treno va in deposito. Il prossimo treno di ritorno, tra cinque minuti. Il prossimo treno per il ponte, dall’altra piattaforma.

Le porte si chiusero, e il convoglio vuoto si allontanò seguendo una curva dei binari. Mi misi in ascolto con la massima attenzione, escludendo gli altri rumori che echeggiavano nella stazione: le conversazioni, una radio che trasmetteva rock, le risate stridule di un trio di ragazzine. Il treno superò la curva, scomparve, poi si fermò. Il deposito di cui aveva parlato il negro. Treni fuori servizio, fermi al termine della linea, in attesa di essere utilizzati di nuovo.

Mi guardai attorno. Nessuno mi stava osservando. Raggiunsi l’estremità della banchina, scavalcai il cancelletto chiuso che sbarrava l’accesso ai binari e scesi i gradini che portavano sul fondo del tunnel. I gradini, le pareti, la ringhiera che toccai, erano coperti da uno strato di unto e sporcizia accumulatosi nel corso degli anni. Il fondo del tunnel era una specie di fogna con binari. Nel riflesso fioco dell’illuminazione vidi che il terzo binario, quello percorso dall’alta tensione, era sormontato da una passerella di legno. Salii là sopra; avevo già le scarpe impregnate dall’umidità fetida che si condensava sul fondo della galleria.

In lontananza, sentii un treno avvicinarsi. Nelle pareti erano scavate delle nicchie sufficienti ad accogliere una persona in piedi, e quando i fari del convoglio mi inquadrarono accompagnati da un fischio io mi schiacciai nell’anfratto, lasciando che il mostro metallico transitasse. Fu un’esperienza mozzafiato, farsi sfiorare da quella massa sferragliante.

Quando il convoglio fu passato, mi scossi e proseguii. Sì, oltre la curva c’erano una dozzina di treni fermi affiancati, tutti decorati di scritte spray. Le rade luci sul soffitto proiettavano chiazze fioche nell’oscurità sudicia che avvolgeva il deposito.

“Sono qui,” mi dissi. “Sono qui, da qualche parte.” Mi fermai e trattenni il respiro, ascoltando. La vista serviva a poco in quel buio.

Un fruscio, uno sdrucciolio. Il raspìo di qualcosa sui binari. Poi una specie di squittìo. Qualcosa mi strusciò contro una caviglia. Ritrassi il piede involontariamente, perdendo quasi l’equilibrio sulle assi traballanti che coprivano il binario elettrificato.

Topi. Scrutai nell’oscurità e scorsi degli occhi rossi malefici che mi fissavano. Topi. Parecchi.

Poi sentii le voci. Dapprima non riuscii a distinguere le parole, ma una era una voce di donna, l’altra aveva il tono brutale e minaccioso che poteva appartenere unicamente al tipo tenebroso che avevo visto di sfuggita nel ristorante.

Seguii la direzione delle voci, silenzioso come uno spettro, ignorando la miriade di occhietti rossi dei topi che baluginavano nell’oscurità attorno a me.

— Cosa gli hai detto? — insisté la voce maschile.

— Nulla.

— Voglio sapere quanto gli hai raccontato.

— Non gli ho detto nulla. — Sì, era la voce di Aretha, non c’erano dubbi. Poi mi giunse un rantolo, un gemito di dolore e di paura.

— Dimmelo!

Accantonando ogni tattica prudenziale, mi precipitai lungo la passerella sconnessa. Aretha urlò, lanciò un grido strozzato, mentre sfrecciavo tra due convogli fermi, e finalmente li vedevo in un cerchio di luce.

Aretha sedeva sul fondo in mezzo alla sporcizia, le braccia bloccate dietro la schiena, la fronte ancora incerottata. L’uomo se ne stava in disparte, parzialmente in ombra, e la fissava. Aretha era circondata da decine di topi. Le gambe e i piedi nudi le sanguinavano. Aveva la camicetta strappata, e un ratto enorme, disgustoso, ritto sulle zampe posteriori, stava allungandosi verso il suo bel viso.

Con un ringhio soffocato, partii alla carica. Vidi il tipo tenebroso girarsi verso di me, gli occhi rossi e maligni come quelli dei topi. Sembrò riconoscermi mentre mi scagliavo nella sua direzione, e arretrò nell’oscurità.

Disarmato, scalciai selvaggiamente la marea di topi attorno ad Aretha, mi chinai e ne afferrai un paio con le mani, gettandoli contro le pareti con quanta forza avevo in corpo. Girando su me stesso, menando calci all’impazzata, agitando le braccia, riuscii a disperderli. I topi fuggirono, squittendo, cercando rifugio nell’oscurità.

Scomparvero, e con loro scomparve anche l’uomo. Guardai Aretha. I suoi occhi mi fissavano senza vedermi. Aveva la gola squarciata. Il suo sangue mi macchiava le scarpe e i pantaloni.

Mi inginocchiai e la sollevai da quel sudiciume. Ma era troppo tardi. Era morta.

4

Trascorsi i due giorni successivi in una specie di stato di choc provocato dalla rabbia, reprimendo i miei sentimenti fino a non provare nulla. Interrogatori della polizia, prove con la macchina della verità, visite mediche, test psichiatrici… mi comportai sempre come un robot, rispondendo alle domande e alle stimolazioni senza alcuna manifestazione emotiva.

Per qualche motivo non parlai con nessuno dell’uccisore di Aretha. L’aveva assassinata controllando chissà come i topi che le avevano lacerato la vena giugulare, usandoli come un altro uomo avrebbe potuto usare una pistola. Ma non feci alcun accenno a lui. Dissi semplicemente alla polizia e ai medici che avevo seguito Aretha dall’ospedale e l’avevo trovata mentre i topi l’aggredivano nel deposito della metropolitana. Ero arrivato troppo tardi per salvarla. Almeno, quest’ultima dichiarazione era vera.

Qualcosa nei recessi del mio intimo mi consigliò di non parlare del tipo maligno. Dentro di me, in profondità, dove le fiamme della furia covavano momentaneamente circoscritte, sapevo che avrei solo passato inutili guai con le autorità e i sanitari se avessi parlato della sua esistenza. Ma, soprattutto, volevo rintracciarlo e trovarlo di persona. Volevo affrontarlo con le mie stesse mani.