Così nascosi parte dei fatti. Gli investigatori che mi interrogarono non erano stupidi. Sapevano che una donna non si mette a gironzolare nelle gallerie della metropolitana per essere attaccata dai topi, seguita da uno sconosciuto che l’aveva incontrata solo il giorno prima… soprattutto se si tratta di due persone vittime recentissime di un attentato terroristico. Mi dissero chiaro e tondo che non mi credevano e che volevano sottopormi alla prova con la macchina della verità. Io accettai con la massima indifferenza quasi le loro domande riguardassero l’ora o il colore del cielo. La macchina della verità rivelò quello che io volevo che rivelasse, naturalmente; per me era un giochetto controllare i battiti cardiaci e la sudorazione.
Dopo una notte al Bellevue in osservazione psichiatrica, la polizia pur con riluttanza mi lasciò andare. Andai a casa e telefonai in ufficio, annunciando che la mattina dopo mi sarei presentato al lavoro in perfetto orario. Il capo parve sorpreso, mi chiese come mi sentissi dopo due esperienze traumatiche nella stessa settimana.
— Sto bene — dissi.
Era vero, non avevo subito danni fisici, e tenevo sotto controllo le mie reazioni emotive. Un controllo troppo stretto, forse.
— Sicuro di non volere riposare fino alla settimana prossima? — mi chiese il capo. I suoi lineamenti normalmente arcigni apparivano piuttosto premurosi nel piccolo schermo telefonico.
— No. Sto benissimo. Domattina vengo in ufficio. Spero che la mia assenza non abbia creato troppi problemi lì al lavoro.
Lui cercò di sdrammatizzare la situazione. — Oh, possiamo tirare avanti senza di te… per un po’. Comunque non vediamo l’ora di vederti, domani.
— Grazie.
Quando ebbi riappeso, la mia mente era già lontana dall’ufficio e stava dedicandosi al problema di scovare l’assassino di Aretha. Il tipo tenebroso. Lui e il tipo radioso. Quei due facevano parte di… cosa? Della mia vita, stando agli accenni di Aretha.
Cercai di ricordare come si fossero comportati al ristorante. Non si erano detti una sola parola; ne ero certo. Si erano guardati di sfuggita, ora che ci pensavo, però quell’unica occhiata che si erano scambiati non era amichevole. Per una frazione di secondo, i loro occhi si erano incrociati sprizzando odio puro.
Si conoscevano. Si odiavano. Capii che se fossi riuscito a trovare uno dei due, sicuramente avrei trovato anche l’altro nelle vicinanze.
Ma come si fa a trovare due uomini in una città con sette milioni e mezzo di abitanti? E se le mie conclusioni fossero state errate? Ero pazzo? Ero stato io a provocare la morte di Aretha, come avevano insinuato gli investigatori durante i lunghi interrogatori? Perché non riuscivo a ricordare nulla, a parte gli ultimi tre anni? Ero vittima di un’amnesia, un paranoico, un pazzo che costruiva fantasie omicide nella mente? Avevo inventato io quei due uomini, avevo creato creature immaginarie della luce e delle tenebre nei sentieri morbosi del mio cervello?
Non c’era che una risposta a tutte queste domande. Trascorsi una notte insonne di riflessioni per giungere a quella semplice risposta, ma tanto non ho mai dormito molto. In genere, un paio d’ore di sonno mi bastano; spesso sono rimasto in piedi parecchi giorni concedendomi solo qualche pisolino. I miei colleghi a volte si sono lamentati, scherzando, per la quantità di lavoro che porto a casa. Battute anche cattive, di tanto in tanto.
La mattina seguente, dopo avere salutato il personale ed essermi sottratto a una serie di domande e di occhiate interrogative, andai nel mio stanzino e telefonai subito al medico della compagnia. Gli chiesi di consigliarmi un bravo psichiatra. Sul minuscolo schermo, il dottore parve un po’ allarmato.
— Si tratta dei problemi che avete avuto con la polizia negli ultimi giorni? — domandò.
— Sì. Mi sento… un po’ scosso per questa faccenda.
Il che era vero.
Mi fissò attraverso le lenti bifocali. — Scosso? Voi? L’imperturbabile signor O’Ryan?
Non dissi nulla.
— Hmm… Be’, immagino che chiunque sarebbe scosso dopo che gli è esplosa una bomba nel piatto. E poi quella ragazza, morta in modo così atroce.
Rimasi zitto, inespressivo. Il medico attese qualche secondo, ma quando si rese conto che non avevo intenzione di chiacchierare borbottò qualcosa e si girò per controllare il suo schedario.
Mi diede il nome di uno psichiatra. Lo chiamai e fissai un appuntamento per il pomeriggio. Lui cercò di posticipare, ma feci il nome della compagnia e del nostro dottore, aggiungendo che volevo solo pochi minuti per un colloquio preliminare.
Fu un incontro brevissimo. Gli parlai dei miei vuoti di memoria e lui si affrettò a indirizzarmi a una collega specializzata in problemi del genere.
Occorsero parecchie settimane, sballottato da uno psichiatra all’altro, ma finalmente trovai quello che volevo. L’unico specialista che accettasse di ricevermi subito, il giorno stesso della mia telefonata. Dal tono sembrava quasi che aspettasse che lo chiamassi. Il suo telefono era senza schermo, ma non ne avevo bisogno. Sapevo già che aspetto dovesse avere.
— Ho parecchi impegni — mi disse la sua voce tenorile. — Comunque, se passate da me stasera verso le nove potrei ricevervi.
— Grazie, dottore. Verrò.
Lo studio era deserto quando arrivai. Aprii la porta dell’anticamera. Nessuno. Fuori c’era buio, e la stanza aveva le luci spente. Tetra, scura, rischiarata solo dai riflessi della strada da basso. Mobili antiquati. Scaffali alle pareti. Nessuna infermiera, nessuna segretaria.
Un breve corridoio partiva dall’anticamera, fiancheggiato da uffici. In fondo, una porta socchiusa da cui filtrava un chiarore tenue. Mi avviai e spinsi la porta.
— Dottore? — Non mi presi la briga di pronunciare il nome scritto sulla porta. Sapevo che non era il vero nome dell’uomo nello studio.
— O’Ryan — disse la voce tenorile. — Entra pure.
Era il tipo radioso del ristorante. Lo studio era angusto e stipato di mobili, con due divani, una scrivania massiccia, tendoni, moquette spessa. Lui sedeva dietro la scrivania, sorridendo. L’unica luce proveniva da una piccola lampada a stelo in un angolo, ma sembrava che quel tipo stesso brillasse, irradiasse un’energia aurea.
Portava una semplice camicia di maglia. Niente giacca. Aveva spalle ampie, era bello. Sembrava in grado di affrontare qualsiasi cosa. Le sue mani erano intrecciate con decisione sulla superficie della scrivania. Invece di proiettare un’ombra, la facevano brillare quasi.
— Siediti, O’Ryan — disse calmo.
Mi accorsi di tremare. Con uno sforzo, controllai i miei riflessi e presi la poltrona di cuoio di fronte alla scrivania.
— Hai detto di avere problemi di memoria.
— Lo sai qual è il mio problema — dissi. — Non perdiamo tempo.
Inarcò le sopracciglia e il suo sorriso si allargò.
— Questo non è il tuo studio — continuai. — Non ti si addice. Dunque, dato che sai il mio nome e il tuo non è quello sulla targhetta, chi sei? E io, chi sono?
— Molto pratico e sbrigativo. Ti sei adattato molto bene a questa cultura, — Si appoggiò allo schienale della poltroncina girevole. — Puoi chiamarmi Ormazd, anche se i nomi non hanno grande importanza.
— Ormazd…
— Sì. E adesso ti dirò qualcosa riguardo il tuo nome. L’hai usato nel modo errato, il tuo nome è Orion… come la costellazione. Orion.
— Il Cacciatore.
— Benissimo! Vedo che capisci! Orion il Cacciatore. Il tuo nome, e la tua missione.
— Dimmi qualcos’altro.
— Non serve. Sai già quello che devi sapere. Le informazioni sono riposte nella tua memoria, ma per la maggior parte sono bloccate nel tuo inconscio.