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Dempsey, seduto sul lettino mentre un medico e una infermiera graziosa lo bendavano, intervenne: — Non si può ragionare con gente simile. Si montano la testa e non guardano i fatti.

— No — lo corressi. — Non si montano la testa da soli. C’è qualcuno che gliela monta.

Mangino spalancò gli occhi per una frazione di secondo, poi annuì. — Avete ragione.

— Sarebbe bene scoprire chi è questo qualcuno — suggerii.

— Già. E da dove viene — convenne Mangino. — Potrebbero essere gli arabi, i responsabili. O le compagnie petrolifere. O qualche gruppo di fanatici.

Chiunque fosse c’era sotto lo zampino di Ahriman. Io lo sapevo.

6

Non fu difficile trovare il quartier generale dei dimostranti. Appartenevano a una organizzazione battezzatasi STOP, una sigla per Stop alla Tecnologia che Opprime i Popoli.

La sede della STOP era una vecchia casa di tre piani di fronte al campus universitario. Parcheggiai l’auto che avevo noleggiato davanti alla casa e rimasi a osservarla. Passavano un sacco di studenti, e altri studenti si radunavano nei pressi delle pizzerie e delle tavole calde lungo la via. Questo lato del viale un tempo era stato occupato da una fila di solenni abitazioni vittoriane. Ora, con l’espandersi del complesso universitario, le abitazioni erano state trasformate in appartamenti, uffici e negozi.

Sul lato opposto della strada sorgeva il campus, una serie di edifici dalle linee aggraziate, siepi ben curate, e alberi che tendevano i rami spogli verso il grigio cielo invernale. La parte del viale in cui mi trovavo sembrava invece un monumento all’avidità dei proprietari: squallida, sporca, rumorosa, redditizia. E lì il traffico era costante: suoni di clacson, motori, un andirivieni di camion, autobus, moto, e perfino qualche bicicletta elettrica.

Scesi dall’auto, convinto che l’approccio migliore fosse quello diretto. Salii i gradini di legno, superai il portico e premetti l’antiquato pulsante del campanello. Non sentendo nulla, aprii l’uscio ed entrai.

Mentre l’esterno della casa era in stile Vecchia America Vittoriana, l’interno era decorato in stile Studente Attivista Contemporaneo. Le pareti del corridoio d’ingresso erano coperte di poster ingialliti che raffiguravano una gamma di personaggi diversi tra loro come Martin Luther King e Jane Fonda. Il manifesto più recente, già sbiadito, proclamava: VIA GLI U.S.A. DAL BRASILE! NON VOGLIAMO UN ALTRO EL SALVADOR! Guardai gli opuscoli ammucchiati su un tavolo. C’era di tutto, dall’aborto al disarmo, ma nessuno che parlasse del reattore a fusione.

Ai lati del corridoio c’erano delle porte aperte. Prima diedi un’occhiata a sinistra, ma lo stanzone era deserto; vidi solo un paio di divani logori, tre brandine dell’esercito e un tavolo con un elaboratore verbale piuttosto sgangherato.

Provai la stanza sulla destra. Una ragazza dall’aria sveglia sedeva dietro un modernissimo centralino telefonico portatile appoggiato guarda un po’ su un massiccio tavolo vittoriano di mogano intarsiato. Sui capelli biondi, tagliati corti, aveva una cuffia con microfono. Senza interrompere la conversazione in corso, mi fece segno di entrare e mi indicò una delle sedie di plastica lungo la parete.

Rimasi in piedi, aspettando che finisse. La mia attenzione si spostò, la mia mente vagò, e rividi il volto serio, finemente cesellato di Aretha, i suoi luminosi occhi grigi, i suoi capelli scurissimi. Allontanai quell’immagine e mi sforzai di concentrarmi sulla ragazza al centralino.

La bionda concluse la conversazione telefonica e mi guardò. I loro telefoni non avevano schermo visivo, notai.

— Benvenuto alla STOP — esordì allegramente. — Cosa possiamo fare per voi, signor…?

— Orion — dissi. — Vorrei vedere il capo di questa organizzazione.

Il suo sorriso sbarazzino si rabbuiò. — Siete del municipio? Dei pompieri?

— No. Sono dell’impianto RTC. Il reattore a fusione.

— Oh! — esclamò sorpresa. Il nemico in casa.

— Voglio vedere il vostro capo.

— Don Maddox? È a lezione, adesso.

— No, non lui. Quello per cui lavora.

La ragazza parve perplessa. — Ma è Don il nostro presidente. È stato lui a fondare la STOP, a…

— È stato lui a decidere di manifestare contro l’impianto a fusione, oggi?

— Sì… — fu la risposta, incerta.

— Voglio sapere chi lo ha istigato a farlo.

— Ehi, un momento, signore… — La ragazza cominciò a giocherellare nervosa col bordo del centralino, leggermente sudata, il respiro un po’ affannoso.

— D’accordo — dissi, allentando la pressione. — Chi è stato il primo a suggerire la manifestazione di protesta all’impianto? Non è stato uno degli studenti, lo so.

— Oh, volete dire il signor Davis. — La bionda si drizzò sulla sedia, assumendo un tono convinto. — È stato lui ad aprirci gli occhi riguardo i vostri esperimenti e tutta la propaganda che avete propinato alla gente.

Inutile discutere con lei. Davis. Sorrisi tra me. Un piccolo cambiamento di pronuncia e ne usciva Deve, gli dei del male nella vecchia religione di Zoroastro.

— Il signor Davis — annuii. — È lui che voglio vedere.

— Perché? Ha intenzione di arrestarlo o di minacciarlo?

Sorrisi di fronte a tanta ingenuità. — Se intendessi farlo, ve lo direi? Stamattina all’impianto non è stato arrestato nessuno, vero?

Scuotendo la testa, la ragazza rispose: — Da quel che ho sentito, avevano piazzato una squadra di gorilla là fuori per pestare i nostri.

— Davvero? Be’, comunque mi piacerebbe vedere Davis. È qui?

— No. — Era chiaro che mentiva. — Sarà assente per un po’… Va e viene. Non so altro.

Scrollando le spalle, dissi: — Bene. Mettetevi in contatto con lui e riferitegli che Orion vuole vederlo. Subito.

— Il signor O’Ryan?

— Orion. Orion, e basta. Capirà chi sono. Aspetto fuori in auto. È parcheggiata proprio qui davanti.

La ragazza corrugò la fronte. — Può darsi che stia via a lungo. Magari fino alla settimana prossima.

— Voi pensate a mettervi in contatto e a dargli il mio nome. Aspetterò.

— D’accordo — disse, e nel tono era sottinteso: Ma credo che tu sia pazzo.

Attesi in auto per meno di un’ora. Era un pomeriggio grigio, gelido, ma mi adattai facilmente al freddo. Strinsi i vasi sanguigni periferici, così che il calore corporeo non si disperdesse troppo in fretta. Aumentai un po’ il ritmo metabolico, bruciando parte dei grassi immagazzinati nei tessuti. Così conservai la stessa temperatura nonostante il freddo. Avrei potuto ottenere lo stesso risultato andando all’angolo a prendere qualcosa da mangiare, ma il mio sistema era più comodo, e poi non volevo abbandonare l’auto. Potevano succedere troppe cose mentre avevo le spalle girate. Mi venne fame, comunque. Come ho detto, non sono un superuomo.

La bionda uscì sul portico, rabbrividendo anche se si era buttata addosso un maglione. Fissò la mia auto. Scesi, e lei mi rivolse un cenno. La seguii in casa. Mi aspettava tremante nel corridoio, le braccia strette sul seno.

— C’è un freddo tremendo, fuori — disse, strofinandosi le braccia. — E non avete nemmeno un cappotto!

— Avete trovato Davis? — le chiesi.

Annuì. — Sì. È… entrato dal retro. In fondo al corridoio. Vi aspetta.

La ringraziai e raggiunsi la porta in fondo all’atrio. Si apriva su una rampa di scale che portava in cantina. “Un posto logico per lui”, pensai, chiedendomi quante leggende oscure e maligne avesse originato nel corso dei millenni.

C’era buio in cantina. L’unica luce proveniva dal corridoio in cima alle scale. Intravidi una tozza, voluminosa, caldaia a carbone irta di tubature, simile a una gigantesca Medusa metallica. Cassoni, scatole, cianfrusaglie, se ne stavano rintanate nell’oscurità.