Chiamai i tenenti per controllare le nostre rispettive posizioni. Ci incontrammo in un cratere aperto nel terreno da una granata. Le perdite erano ingenti, ma le nostre armi funzionavano ancora. Avevamo buone scorte di polvere, ma le bombe erano quasi finite.
— Faccia un rapporto della situazione al comandante della flotta —ordinai al tenente Vorl. Lei rimboccò una manica della tuta e cominciò a digitare sulla tastiera che aveva al polso.
— Il ricetrasmettitore è ancora intatto —ripresi —ma non possiamo arretrare di più. Sono troppo vicini; a questo punto basterebbe quasi una bomba a mano per colpirlo.
— Gli schermi lo proteggeranno —osservò il tenente Quint.
— Ma non proteggeranno noi —rilanciò Frede.
— Manca un’ora o giù di lì all’alba. —Era stato Quinta parlare. —Secondo l’Intelligence, gli Skorpis si ritirano quasi sempre con la prima luce.
— E l’Intelligence fino a ora ha avuto ragione, vero? —commentò Frede.
— È quel “quasi sempre” che mi preoccupa —ammisi io. —Gli Skorpis sembrano intenzionati a combattere fino all’ultimo uomo.
— Nostro o loro?
— A chiunque tocchi per primo.
Un raggio laser ci passò sulla testa, subito seguito dall’esplosione di una granata.
— Ricominciano.
Vorl tornò all’argomento della nostra conversazione. —Signore, ho difficoltà a mettermi in contatto con la flotta. Ci sono interferenze su tutti i canali disponibili.
— Disturbi intenzionali?
— È possibile. Oppure qualcosa non va nelle nostre apparecchiature.
— Splendido! —mormorai io. —Proprio quello che ci voleva! Perdere il contatto con la flotta.
Ancora spari. Ma nessuno dei sergenti si fece vivo, e mi convinsi perciò che non stesse accadendo nulla di troppo grave. Non ancora.
— Per quanto tempo ancora riusciremo a tenerli lontani? —domandò Quint.
— Fino a quando dovremo —rispose Frede.
Mi rivolsi a Quint —Ha qualcos’altro in mente?
Mi guardò con un’espressione strana, tra l’ansia di fare e il timore. —Il morale delle truppe è ancora alto, signore. Per tutta la notte non abbiamo fatto altro che massacrare quei bastardi, ma, se continuiamo a starcene qui seduti, i ragazzi finiranno con lo scoraggiarsi. Soprattutto se gli Skorpis non si ritireranno all’alba.
— Che cosa sta cercando di dirmi?
— Credo che dovremmo contrattaccare, signore. Le battaglie si vincono grazie all’impeto, non solo con la tattica. Attaccarli, costringerli ad arretrare e massacrarli, ecco quello che dovremmo fare!
— Si vive più a lungo difendendosi —osservò Frede. —Attaccare significa maggiori perdite.
— E noi non abbiamo la più pallida idea di quanti Skorpis ci siano ancora là fuori —puntualizzò Vorl. —Potremmo trovarcene davanti a milioni.
— È proprio questo il punto —dissi. —Non sappiamo ancora contro chi stiamo combattendo, quanti siano i nemici e quali siano le loro intenzioni.
Tre bombe esplosero vicinissime a noi, scaraventandoci a terra.
— Eccoli di nuovo in azione! —gridò uno dei sergenti.
Non era più il tempo di discutere. Il nemico aveva risolto la questione per noi. Ci allontanammo carponi dal cratere per raggiungere strisciando le rispettive squadre, o ciò che ne era rimasto. Gli Skorpis attaccavano di nuovo; si avventavano contro le nostre armi lanciando le loro odiose grida di guerra. Noi sparammo, sparammo, sparammo, spiccando teste dal busto, dilaniando corpi… ma non si fermavano.
Il cielo cominciava a schiarirsi, anche se io ero troppo preso per accorgermene. Nuvole di fumo e polvere oscuravano i primi segni dell’alba.
La mia mitraglietta, alla fine, si scaricò. Non c’era tempo per cambiare il caricatore, perciò afferrai la pistola e la puntai senza esitare contro l’enorme guerriero che mi si slanciava addosso. Il raggio laser attraversò la corazza, poi il corpo, ma l’impeto era tale che quasi rovinò su di me, travolgendomi.
Ormai era una lotta corpo a corpo. Estrassi il pugnale da combattimento, trenta centimetri di micidiale acciaio seghettato, ed ecco che mi sentii di nuovo Orion, il guerriero primitivo, che maciullava, infrangeva e dilaniava i nemici. Il mondo si dissolse in una nebbia rossastra, mentre continuavo ad assestare colpi agli Skorpis che avanzavano.
Erano creature enormi, con braccia lunghe più della circonferenza del mio torace, spalle smisurate e volti dai tratti felini, in quel momento alterati da smorfie di dolore, rabbia e odio. La loro armatura, concepita per riflettere i raggi laser, era troppo leggera per fermare i colpi del mio pugnale. Miravo con la pistola agli occhi, se non altro per accecarli, e poi gli affondavo il pugnale nella gola o direttamente nel cuore.
Reagivano, ma io vedevo la lentezza con cui le loro mani gigantesche si chiudevano intorno alla pistola. Vedevo la nuova fissità dei loro occhi, li vedevo vacillare e tentare di sottrarsi alla mia ferocia. Invano.
Quattro di loro mi stavano caricando, mirando con le pistole laser alla mia armatura. Ne colpii uno alla gola, poi mirai alla visiera di un altro. Squarciai il calcio della pistola al terzo e detti un calcio in pieno petto all’ultimo, facendolo barcollare all’indietro. Il secondo si sollevò la visiera e fu allora che lo colpii agli occhi. Poi sparai alla testa del terzo che, con la mano dilaniata, tentava affannosamente di afferrarmi il polso.
L’ultimo puntò la pistola contro di me. Doveva essere scarica, perché la lanciò in aria e io la vidi volteggiare oltre una nube di polvere e fumo. Con un grido soffocato, il gigante si scagliò contro di me, afferrandomi per la gola. Indietreggiai e mirai al collo. La sua testa cominciò a girare come una trottola, poi crollò bocconi. Prima che potesse fare un altro movimento, gli saltai sulla schiena e affondai il pugnale nell’armatura, fino al cuore.
Scattai di nuovo in piedi e mi guardai attorno. Era tutto finito. Non c’erano più Skorpis da uccidere. Ero solo, circondato da corpi enormi e senza vita, e in mano il pugnale da cui sgocciolava sangue denso e scuro.
Aprii e chiusi gli occhi più volte, i sensi ancora sovraeccitati e ogni molecola del corpo tesa ad anticipare altri pericoli, ogni atomo del mio essere ancora avido di morte. Un’avidità che mi era stata deliberatamente installata; ero un essere creato per uccidere. Per la terza volta mi guardai intorno, ma non c’erano più nemici.
Restava una manciata dei miei uomini. Quelli che ancora si reggevano sulle gambe mi guardavano a bocca aperta, come si guarda un’apparizione. Un eroe. Un mostro.
5
— Se ne sono andati —annunciò il tenente Frede, con la voce incrinata dalla stanchezza e dal dolore. Era per terra, appoggiata su un gomito, con il viso sporco e le gambe che grondavano sangue. Nella mano stringeva ancora la pistola.
— Sono morti —borbottò un soldato. —Tutti.
— È stato lei a ucciderli —disse il sergente Manfred. Il braccio destro gli penzolava lungo il fianco e su quel lato il suo volto era gravemente ustionato.
— Li abbiamo uccisi tutti noi —lo corressi. —E abbiamo messo in fuga quelli che restavano.
Nel cielo, la luce livida dell’alba aveva lasciato il posto a un pallido azzurro. Presto sarebbe sorto il sole. Un fumo grigio, acre e pungente, aleggiava nell’aria.
Frede si mise a sedere. Era circondata da corpi; dei nostri soldati e quelli, più massicci, degli Skorpis.
— È stato lei a ucciderli —ripeté, e nella sua voce vibrava una nota di timore. —Non ho mai visto niente di simile.
Gli altri soldati si strinsero attorno a me. Ero il loro salvatore, il loro eroe. Ma ero anche un folle, una macchina da guerra, un assassino spietato. Benché fossero anche loro uomini induriti dalle atrocità della guerra, mi guardavano con ammirazione per le mie prodezze, ma anche con una vena di paura.