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— Ebbene —ripresi, cercando di distogliere la conversazione da me —occupiamoci dei feriti. Dov’è Vorl? Dobbiamo inviare un rapporto alla flotta.

— È morta —rispose uno dei soldati. —Una granata.

Puntai l’indice verso i sei soldati che avevano riportato ferite meno gravi e dissi loro che avrebbero formato una squadra di soccorso. Altri sei li mandai a controllare che cosa era rimasto del nostro campo e se le apparecchiature avevano subito danni. Io stesso cercai di mettermi in comunicazione con la flotta, utilizzando gli strumenti inseriti nel casco.

Non ci riuscii, e la cosa mi preoccupò. Non potevano essere gli Skorpis che disturbavano la linea, dato che erano quasi tutti morti e i pochi superstiti in fuga. A meno che non possedessero apparecchiature di disturbo telecomandate. Questo significava che avremmo dovuto inoltrarci nel bosco e setacciarlo alla ricerca…

— Ti sento, Orion. —La voce di Aton era forte e chiara. Sembrava risuonare nella mia mente anziché dai microfoni. —Cala la visiera.

Obbedii e la sua immagine prese forma davanti ai miei occhi. Indossava ancora la sua splendida uniforme bianca e oro, ma il suo volto era cupo.

— Un’imponente flotta nemica è emersa all’improvviso dal subspazio e ci ha attaccato. La maggior parte delle nostre navi è andata distrutta, le altre hanno fatto a tempo a fuggire.

— Fuggire? —gracchiai.

— Erano numericamente in vantaggio, Orion. Se non avessero lasciato la zona, le nostre truppe sarebbero state annientate.

— Ma che ne sarà di noi? E i rinforzi?

— Tu e la tua squadra d’assalto resterete soli fino a che la flotta non sarà ricostituita e potrà tornare su Lunga.

— Non puoi pretendere… —troppo tardi: l’immagine di Aton lampeggiò, tremolò, poi si dissolse.

Sollevai di nuovo la visterà e vidi che gli uomini si erano già messi al lavoro. Nessuno aveva ascoltato la mia conversazione con Aton. Era come se fossi stato brevemente proiettato in un’altra dimensione, isolato da loro da un’invisibile parete.

Li lasciai lavorare, tenendo per me la notizia dell’abbandono della flotta. Prima, volevo scoprire in quali condizioni era la truppa.

La situazione era desolante. Dei nostri cento uomini, quarantasei erano stati uccisi e ventidue avevano riportato gravi ferite, tanto che prevedevano di essere reimbarcati non appena ci fosse stato inviato un mezzo per l’evacuazione. Dei restanti trentadue tutti eravamo feriti, benché ancora in grado di tenerci in piedi ed eventualmente combattere. L’unico illeso era il tenente Quint e la cosa mi lasciò di stucco.

Le condizioni di Frede, invece, erano preoccupanti. Aveva entrambe le gambe spappolate da una granata, e ci sarebbe voluta una settimana, o forse più, perché i rigeneratori telecomandati fossero in grado di saldare le sue ossa frantumate e ricostruire i tessuti. Anche gli altri avevano brutte ferite, ma non disponevamo di attrezzature di rigenerazione sufficienti per curarli tutti.

Il sergente Manfred aveva una brutta ustione sulla spalla, ma a parte una modesta perdita di sangue, poteva ancora camminare. Andai da lui. Era disteso per terra e due militari gli stavano effettuando una trasfusione.

— Manfred, lei ora è tenente —gli annunciai.

Lui sollevò lo sguardo verso di me. —Non ci tengo, signore. Io sono un sottufficiale.

— Lei è tenente, Manfred, e lo resterà fino a quando non troverò qualcuno che prenda il comando della squadra di Vorl. Dovrà comportarsi da tenente, e tale la considereranno i suoi soldati. Fine della discussione.

— Sissignore —borbottò Manfred con evidente disappunto.

— Quanto tempo ci vorrà per la trasfusione? —mi informai, rivolto a uno dei due soldati.

La donna fece un rapido conto. —Nove minuti, signore.

— Tenente Manfred, ci sarà una riunione di ufficiali tra quindici minuti, nel punto in cui sorgeva la mia tenda. Mi raggiunga là.

— Sissignore.

I due soldati lo guardarono sogghignando.

Quando arrivò alla riunione, Manfred aveva la spalla e il volto coperti da bendaggi spray. Frede se ne stava seduta con le gambe tese in avanti, infilate in rigidi tubi rigeneratori che le arrivavano fino alle anche. E Quint sembrava a disagio, quasi pensasse di soffrire anche lui di qualche ferita.

Io avevo diversi tagli e bruciature sulle braccia, le gambe e in viso, ma niente che richiedesse cure particolari al di fuori di una pennellata di gel alle proteine e un po’ di tempo.

— Come stiamo a provviste? —chiesi a Quint.

Lui trasse un lungo sospiro. —Non troppo bene, a essere sinceri. Quasi tutto è andato distrutto durante il combattimento. Abbiamo cibo sufficiente per tre giorni al massimo. Le ricariche per le armi non sono più di una dozzina e le scorte di materiale sanitario sono al limite. Abbiamo bisogno di altri rigeneratori, in particolare. E poi, di nuove tende, tute e…

— Basta così —lo interruppi. —La situazione è già abbastanza chiara.

— Quando arriverà la nave con le attrezzature sanitarie? —si informò Frede.

— Non arriverà —risposi.

— Come sarebbe a dire? Abbiamo feriti che non siamo in grado di curare in modo adeguato! Devono essere ricondotti alla base.

— Non c’è nessuna base. La nostra flotta ha dovuto soccombere a una forza superiore e ha battuto in ritirata.

— Sono fuggiti? —Quint sgranò gli occhi. —Ci hanno lasciato qui e sono fuggiti?

— È così —confermai. —Siamo rimasti soli.

Impiegarono tutti qualche minuto a digerire la brutta notizia. Frede e Quint si scambiarono un’occhiata.

— Quelle dannate lucertole! —biascicò Quint.

Frede si guardò le gambe. —Non mi sono mai fidata di loro… Bastardi dal sangue freddo!

Manfred si limitò ad annuire, come se non si fosse aspettato altro. Mi stupì accorgermi di quanto fosse diverso dagli altri due. Aveva i lineamenti spigolosi, duri, il naso aquilino, gli occhi stretti di un marrone cupo, quasi nero, e i capelli corvini. Persino la pelle era diversa, più scura e tesa sugli zigomi sporgenti.

— Siamo destinati a morire qui —mormorò Quint.

Manfred abbozzò un sorriso. —Qual è la differenza? Se la flotta fosse venuta a riprenderci, ora saremmo di nuovo congelati.

Quint spostò lo sguardo su di lui. —Ma è uno stato da cui si resuscita, prima o poi.

— Certo! —commentò Manfred, —Ogni volta che vogliono che moriamo per loro.

— È così che parlano i traditori!

Era ora di intervenire. —Basta, adesso —intimai. —Non siamo ancora morti e non voglio litigi tra i miei ufficiali. —Rivolgendomi a Manfred aggiunsi: —E vale anche per quelli che lo sono appena diventati.

— Mi dispiace, signore —biascicò lui. Rivolto a me, non a Quint.

— Abbiamo poche razioni di cibo e nessuna speranza di ottenere rifornimenti dalla flotta —ricapitolò Frede. —Che possibilità abbiamo di sopravvivere?

— C’è una base degli Skorpis sul pianeta —replicai. —Lì, di cibo dovrebbe essercene a sufficienza.

— Un’incursione nella base degli Skorpis?

— Ma è un suicidio! —obiettò Quint con veemenza.

Gli indirizzai un sorrisetto amaro. —Preferisce morire combattendo, oppure morire di fame?

Manfred si inserì nella conversazione. —Signore, con tutto il dovuto rispetto, la base degli Skorpis è situata dall’altra parte del pianeta. Ci vorranno più di pochi giorni per raggiungerla. Di che cosa vivremo nel frattempo?

— Di quello che offre la terra. Il rapporto dice che ci sono piante e animali commestibili. Alcuni, almeno.