Lei fraintese il mio silenzio. —D’accordo, puoi sempre degradarmi a soldato semplice e mettere qualcun altro al mio posto. Ma resto dell’opinione che ciò che stiamo per fare non abbia senso, che è assurdo mandare cinquantadue uomini ad attaccare una base Skorpis.
— Vedi qualche alternativa?
Lei trasse un lungo sospiro, come se temesse di dare voce ai suoi pensieri. Sbatté più volte le palpebre e infine trasse un lungo sospiro. —Potremmo restare qui. —disse —Vivere qui. Dimenticare la guerra, dimenticare il suo inferno e restare qui per il resto dei nostri giorni.
— Dimenticare gli ordini?
— Loro ci hanno abbandonato, Orion! Non siamo stati noi a fuggire!
— E credi che i nemici ci lascerebbero in pace?
— Se restiamo qui, non rappresenteremo di certo una minaccia per loro. E sanno che sappiamo difenderci in caso di attacco. Perché dovrebbero preoccuparsi di noi?
Ci pensai su per un momento. Probabilmente Frede aveva ragione. Ma se restavamo lì, non avrei mai trovato Anya. E per quanto odiassi il Radioso e tutti gli altri Creatori… eccetto Anya… sapevo che doveva esserci un motivo se mi aveva mandato lì, in quello spazio e in quel tempo.
— Frede —dissi con voce pacata —ho l’ordine di annientare la base degli Skorpis. L’istallazione del ricetrasmettitore era solo il primo passo verso l’obiettivo finale, lo sai anche tu.
La sua espressione si fece dura. —Hai intenzione di farlo con cinquantadue uomini?
— È per questo che siamo qui.
— Allora ci manderai tutti a morire.
— È per questo che siamo qui —ripetei.
Lei mi indirizzò un’occhiataccia, poi, stranamente, scoppiò in una risata amara. —Ogni giorno che passa assomigli sempre di più a un vero ufficiale.
Si allontanò e cominciò a impartire ordini ai soldati, come se tra noi non fosse accaduto niente. Ero felice di non essere stato costretto a usare le parole di condizionamento. Ma pensavo che i tentennamenti di Frede non sarebbero stati l’unico problema di disciplina che avrei dovuto affrontare. Sicuramente, era soltanto il primo.
A mano a mano che ci avvicinavamo alla catena montuosa, la temperatura scendeva. Le notti erano gelide, umide, con un vento forte che scendeva a spazzare i fianchi delle montagne. Piovve per diversi giorni di fila; vittime della prolungata permanenza tra fango e umidità, ormai tossivamo tutti. Ma continuavamo il nostro cammino, seguendo il corso naturale del fiume, fino a quando questo non si risolse in tanti ruscelli gorgoglianti che formavano suggestive cascatelle.
La pioggia si trasformò in neve, che con il passare dei giorni si fece sempre più fitta. Ci lasciammo alle spalle i ruscelli per arrancare attraverso gole innevate. La notte ci rifugiavamo nelle caverne, dove, almeno, potevamo accendere il fuoco e dormire all’asciutto. I picchi frastagliati delle montagne si stagliavano sopra di noi, coperti di neve. Talvolta, i venti che infuriavano inclementi trasformavano i cristalli di ghiaccio in meravigliosi prismi, che catturavano la luce del sole, creando splendidi giochi di colore. Sarebbe stato un incanto, se non fossimo stati stretti in una morsa di gelo. Avanzavamo tra cumuli di neve, tremando per il freddo e sempre sul punto di scivolare sulle lastre di ghiaccio. Poi, finalmente, arrivammo a corsi d’acqua non gelati. Avevamo superato la barriera montuosa e ora i nostri passi si dirigevano a valle.
Una settimana dopo, la neve era solo un ricordo. Sudavamo e ci lamentavamo per il caldo, a mano a mano che scendevamo a valle, ed ecco che alla fine la distesa dell’oceano apparve davanti ai nostri occhi. Insieme alla base degli Skorpis.
Non era immensa né fortificata come avevo temuto. Ma era abbastanza grande perché mi chiedessi come avrei fatto anche solo ad avvicinarmi, con quella manciata di uomini che avevo a disposizione. Dovevano esserci almeno un migliaio di guerrieri in quell’accampamento.
I sensori della visiera, regolati sul massimo della potenza, non mi mostrarono né trincee né fortificazioni, benché abbondassero le piazzole di tiro, disposte a semicerchio. La base sorgeva in riva al mare, lungo un’ampia spiaggia di sabbia bianca. Costruzioni basse sui cui tetti erano montati pannelli solari. File di tende quadrate, allineate con precisione militare. Dall’acqua, sporgevano lunghi pali metallici, inframmezzati da costruzioni di forma conica.
Qualcosa si agitava nella mia mente. Guardai in lontananza, oltre la postazione nemica, oltre le dune di sabbia e i cespugli di piante grasse, e…
Ma certo! Era la spiaggia che avevo visto nel sogno. E la città, bombardata e ridotta in monconi e detriti… esisteva.
Indicandola, chiesi ai miei ufficiali: —Sarebbe possibile raggiungere quelle rovine senza che gli Skorpis ci vedano?
Quint scosse immediatamente il capo. Frede sembrava scettica. Manfred invece disse: —Potremmo inerpicarci sul crinale, superare le rovine, e scendere laggiù, dove il fiume confluisce nel mare. A quel punto, niente ci impedirebbe di risalire la spiaggia, con le rovine della città tra noi e la postazione degli Skorpis. A meno che non mandino squadre di perlustrazione così lontano, dovremmo passare inosservati.
— A meno che —sottolineò Quint.
— E se non hanno satelliti spia in orbita —rincarò Frede. —Gli infrarossi non perderebbero un solo atomo delle nostre persone.
— Non ci saranno problemi, se cammineremo sulla spiaggia di giorno —replicai. —È inondata dal sole.
— Ma i sensori dei satelliti potrebbero comunque intercettare oggetti in movimento.
Considerai la cosa per qualche minuto: —Prenderemo quella strada —decisi alla fine —Cominciate a far preparare gli uomini; ci metteremo in marcia entro mezzogiorno di domani.
Sebbene riluttanti, scattarono sull’attenti.
— E se avvisteremo pattuglie Skorpis, ci butteremo a terra e le lasceremo passare. Che nessuno spari, a meno che non siano loro a cominciare. Voglio che entriamo all’interno delle rovine passando inosservati, se possibile.
Trascorremmo il resto della giornata aprendoci un varco lungo il crinale montuoso, per poi riscendere fino al crepaccio dove il fiume scorreva diretto al mare. Nella luce morente del tramonto, allestimmo il campo per la notte sulle sponde del corso d’acqua. Niente fuochi. E nessuna pattuglia degli Skorpis in vista.
Non cercai neanche di dormire, quella notte. Mi aggirai tra le ombre, con tutti i sensi all’erta, consapevole che gli Skorpis si trovavano a loro agio nell’oscurità e, soprattutto, chiedendomi se sarebbero stati così compiacenti da restare nel loro campo, e se ci avevano già individuati. Il fiume scorreva tumultuoso, come ansioso di raggiungere il mare. Il vento era caldo e umido come il respiro di un amante. La notte era scura, senza luna, e le stelle che punteggiavano il cielo non avevano alcun significato per me. Non riconoscevo nessuna delle familiari costellazioni della Terra.
Notai un guizzo di luce in prossimità del punto in cui il letto del fiume si allargava a formare una piccola baia. Una pattuglia nemica? Come mai gli Skorpis, creature amanti del buio, avevano bisogno di una luce? Ma non potevano essere i miei soldati, che si trovavano alle mie spalle con l’ordine di non sparare.
Mi diressi cautamente in quella direzione, attento a tenermi vicino alla schiera di alberi che crescevano ai piedi delle rupi. Estrassi la pistola dalla fondina.
La luce si dilatò, si fece più intensa, e all’improvviso capii che cosa stessi guardando. Chi.
Aton, il Radioso, era in piedi, circondato da un’aura luminosa, con le braccia incrociate sul petto e un sorriso pieno di aspettativa dipinto in volto. Non indossava più l’uniforme militare, ma un lungo mantello bianco sopra una tuta aderente di metallo scintillante.
Aveva l’aspetto di un dio, dovevo ammetterlo. Splendido nel volto e nel corpo, sembrava il modello umano ideale a cui Michelangelo o Prassitele si erano ispirati per scolpire i loro capolavori. Eppure, sapevo che la sua apparizione era un’illusione o, meglio, un gesto di pura condiscendenza da parte sua. La vera forma di Aton era una sfera di energia luminosa; assumeva sembianze umane soltanto per trattare con le sue creazioni mortali.