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— Puoi stabilire l’età della città? —le chiesi.

— Ne dubito. Bisognerebbe conoscere i tassi di radioattività di questo pianeta, e sono dati di cui il nostro computer non dispone.

— Ne sei sicura?

— Ho già controllato —rispose. —Questa città mi ha incuriosita subito, fin da quando eravamo ancora sulle montagne.

Dunque gli “strumenti” mostravano curiosità, pensai. A dispetto delle intenzioni dei loro creatori, erano molto più di semplici macchine per uccidere.

Ci accampammo al piano terra di uno dei pochi edifici ancora in piedi; era piacevole avere un tetto di cemento sulla testa e solide pareti intorno. Permisi ai soldati di accendere il fuoco e, mentre cuocevano la selvaggina che avevamo cacciato sulle montagne, li lasciai per visitare l’interno di altri edifici alla ricerca di indizi che me ne rivelassero l’età e l’origine.

Non riuscii a trovare nulla. Non un quadro era scampato alle fiamme, non c’erano statue intatte, né mosaici o murales. Di tanto in tanto, trovavo frammenti di intonaco o di piastrelle, affascinanti evocatori di affreschi o, addirittura, di mappe. Ma i frammenti non erano mai abbastanza grandi da lasciar intuire l’insieme di cui avevano fatto parte.

Mentre camminavo tra le macerie, feci un’altra scoperta. Non c’erano animali. Niente topi, né insetti. La distruzione di quella città doveva risalire a tempi così lontani che perfino le ossa dei suoi abitanti si erano tramutate in polvere, soffiata via dai venti marini.

Indugiai al centro di quello che una volta doveva essere stato l’ingresso di un imponente palazzo. Con i piedi protetti dagli stivali, cercai di scalfire le incrostazioni di polvere e scoprii che il pavimento era ricoperto da piastrelle dai colori vivaci, ormai sbiaditi fino a stemperarsi in un grigio quasi uniforme. Mi chinai e con le mani grattai via la dura patina di polvere e detriti.

Ma, sotto, trovai soltanto una scacchiera di piastrelle colorate. Forse, come gli antichi musulmani, i costruttori della città non avevano voluto riprodurre le proprie fattezze.

Che differenza faceva? Una volta, tanto tempo prima, avevano combattuto contro un nemico implacabile. E avevano perso. La loro città si era tramutata in polvere. Una civiltà era andata distrutta. Solo un altro giro della grande ruota.

Mi tolsi il casco e mi stesi sul pavimento, gli occhi rivolti al cielo che andava oscurandosi, alle costellazioni sconosciute. Il mio cuore anelava alla presenza di Anya, a vederla, a parlarle, a perdermi nella purezza dei suoi occhi grigi e sorridenti, a toccarla, ad amarla e a sapere che lei mi amava ancora. Intrecciando le mani dietro la nuca, dissi a me stesso: “Ti sei vantato con il Radioso di poter trovare Anya senza il suo aiuto. D’accordo, allora, dimostra che puoi farlo”.

Potevo provarci, almeno.

Chiusi gli occhi e mi sforzai di ricordare le mie molte traslazioni attraverso il continuum. I momenti di nulla. Il freddo criogeno del vuoto tra spazio-tempi. L’eterna danza degli atomi che rallentavano, mutavano, di energie che splendevano e irradiavano un perenne splendore, che si gonfiavano e poi calavano come le onde, come la luna, come la vita stessa.

Non accadde nulla. Quando aprii gli occhi, ero ancora disteso tra i resti della città morta. Era notte inoltrata; le stelle si erano spostate sopra di me. Il nastro luminoso della Via Lattea brillava nel cielo, tra grappoli di stelle. Quella luna, piccola, pallida e distante pareva guardarmi con tristezza. Mi sembrò stranamente familiare, come se l’avessi conosciuta in un’altra vita, in un’era diversa.

“Chi sei?”

Percepii la voce, più che udirla. L’accenno di una domanda nella mia mente.

“Chi sei?” ripeté.

— Sono Orion —risposi ad alta voce.

“Non sei come gli altri.”

— Quali altri?

“Quelli che si chiamano Skorpis. E i loro alleati.”

A quelle parole sollevai il mento. —Alleati? Quali alleati?

“Ti abbiamo già visto prima. Eri qui, e non eri qui.”

— Che cosa significa? Chi sei tu?

Nessuna risposta. Solo un’intensa sensazione di ripugnanza. E poi più nulla. Ero di nuovo solo. Il mio misterioso visitatore se n’era andato.

Mi sedetti a riflettere. Non avevo immaginato quel contatto; era stato reale. Ed era avvenuto lì, in quello spazio-tempo. La voce sapeva degli Skorpis e aveva detto che non erano soli, che avevano degli “alleati”.

— Chi sei? —gridai forte.

Nessuna risposta.

— Io ti ho detto il mio nome; è giusto che tu faccia altrettanto. —Parole che suonarono ridicole alle mie stesse orecchie. Un’entità mi aveva contattato telepaticamente e io pretendevo che seguisse le regole del galateo.

Percepii una vaga presenza divertita, ma forse a causarla era solo la consapevolezza della mia stupidità.

Aspettai, rannicchiato sul pavimento lurido, fino a che il cielo non diventò grigiastro. Poi, accettando la sconfitta, mi alzai e tornai all’accampamento.

Manfred era in piedi davanti all’ingresso e impugnava il fucile.

— Capitano! —esclamò. —Sta bene?

— Certo che sto bene —replicai.

— Abbiamo passato metà della notte a cercarla. Quando è sparito…

— Stavo ispezionando la città —tagliai corto. —Se avessi avuto qualche problema, mi sarei messo in contatto con voi sulla linea d’emergenza.

Alla luce livida dell’alba, l’espressione sul volto di Manfred tradiva disappunto e, insieme, sollievo. —Sì, signore, immagino di sì. Ma aspettavamo il suo ritorno, e quando non l’abbiamo vista… —La voce lo tradì.

Gli posai una mano sulla spalla. —Hai ragione, Manfred. Avrei dovuto avvertirti che intendevo passare la notte in perlustrazione. È colpa mia. Spero che tu non abbia perso troppo sonno per colpa mia.

— No, signore. Sto bene. —Ma guardandolo da vicino, vidi che aveva gli occhi cerchiati.

Dopo che i soldati ebbero fatto colazione, li divisi in squadre al comando dei sergenti: avrebbero perlustrato le rovine e localizzato le postazioni difensive più idonee. Gli ufficiali restarono con me.

— È necessaria una ricognizione alla base degli Skorpis —dissi. —E, se possibile, penetrare all’interno.

Quint scoppiò in una risatina ironica. —Ma certo! Ci presentiamo e chiediamo il permesso di fare un giro!

— Oppure scaviamo un tunnel che ci porti fin lì —propose Frede, sogghignando.

— Ho fatto anche questo, in passato —replicai —ma credo che stavolta non servirebbe.

— Che cosa ha in mente? —volle sapere Quint. Poi aggiunse: —Signore.

Riflettei sull’opportunità di riferire del mio contatto telepatico, ma alla fine decisi di non farne nulla. Non ero sicuro neanch’io di quanto era accaduto. Ma l’ipotesi che gli Skorpis avessero degli alleati all’interno della loro base era troppo importante perché si potesse trascurarla.

— Andrò da solo —annunciai.

— Non può —reagì immediatamente Frede. —Con tutto il rispetto, signore, non può affrontare una missione suicida e abbandonare i suoi uomini al loro destino.

— Non sarà necessariamente una missione suicida, tenente. Non sono completamente pazzo.

Lei non esitò neppure un secondo. —Lasci andare me, allora.

Scossi il capo. —Ho più esperienza di voi in questo genere di operazioni; devo andare io. Se domani al tramonto non sarò ancora tornato, potrete darmi per morto.

Frede avrebbe voluto replicare, ma sapeva che era inutile. Manfred mi guardò come se fossi impazzito. Quint, invece, era quasi sorridente. Se venivo ucciso, avrebbe assunto lui il comando.

Manfred si schiarì la voce. —Potrei sapere, signore, come intende raggiungere la base? Tra queste rovine e il loro accampamento, ci sono almeno un paio di chilometri di spiaggia.

— Aspetterà il tramonto? —domandò Quint.