— Li trattano come se fossero meno che umani —fui costretto ad ammettere.
— Esatto. Li mandano a combattere, e a guerra finita li ibernano. —Scosse il capo. —Li trattano come macchine. Peggio, anzi.
— Ma vorrei salvarli ugualmente, se potessi. Vorrei aiutarli, trovare per loro un luogo dove possano vivere in pace e al sicuro, senza che la Suprema Alleanza li trascini in guerra, senza finire congelati come carne da macello in attesa del giorno in cui ci sarà ancora bisogno di loro. —Stavo pensando ad alta voce, aprendo il mio cuore a quell’estraneo che, pur non umano nelle sembianze, lo era nondimeno molto più dei miei Creatori.
— Dimentica tutto questo, Orion —disse il comandante. —Mi piacerebbe ritirarmi su un pianeta che ho visto una volta, verde e lussureggiante, e così umido che non c’è mattina che la nebbia non si levi dalle paludi. Invece, morirò in una di queste uova di metallo. Passerò la mia vita a bordo di questa o di quella nave e un giorno, da qualche parte, sarò ucciso. Questa è la vita del guerriero, e questo è ciò che siamo, Orion. Tu, io e tutti gli altri, a qualunque razza appartengano. Siamo condannati a combattere. Per noi non esiste altra vita.
Rimasi seduto in quell’angusta stanzetta, a sorseggiare il whisky offertomi dal comandante, e intanto il nostro umore si faceva sempre più tetro. In ultimo mi alzai e presi congedo. Chiesi a uno dei suoi sottoposti di indicarmi il mio alloggio che, scoprii, era identico a quello del comandante. L’alieno mi insegnò a usare la tastiera del computer, e fece scorrere un pannello che rivelò una nicchia in cui erano appese due uniformi.
Rimasto solo, mi lasciai cadere sulla branda. Era un po’ corta per me, ma la cosa non mi preoccupò. Non avevo alcuna intenzione di dormirci.
Chiamai il Radioso. Lo chiamai attraverso le correnti dello spazio-tempo. Parlami, lo implorai: “Concedimi un momento della tua attenzione”.
Nulla. Non voleva rispondermi. Avrei potuto autotrasportarmi nella città dei Creatori, ma a quale scopo? Aton non si sarebbe degnato di manifestarsi. L’ultima volta, aveva inviato il suo messaggero. Ma io non volevo messaggeri. Volevo Aton in persona, il Radioso.
Che rifiutava di rispondermi. Quando mi concentrai e cercai di raggiungerlo con la sola forza del pensiero, avvertii solo un senso di vuoto.
Ma no! Qualcosa c’era… un viticcio di pensiero. Il debole mormorio di un contatto.
“Amico Orion” dissero gli Antichi. “Sei sopravvissuto alla battaglia.”
“Ma i miei soldati” gemetti. “Sono stati ibernati. Verranno uccisi.”
“Tu vuoi salvarli.”
“Da solo non ce la farei. Potete aiutarmi voi?”
“Noi non interferiremo in alcun modo, Orion. Abbiamo fatto una promessa e intendiamo mantenerla.”
“Ma i miei soldati…”
“Sentiamo il tuo dolore, Orion. Stai crescendo in saggezza. Il dolore è il prezzo della saggezza.”
“Dunque non c’è modo di salvarli?”
“Sta a te decidere, amico. Usa tutte le tue risorse. Protenditi a cogliere le opportunità che ti circondano.”
“Quali opportunità?” domandai.
Ma mi rispose solo il silenzio. Gli Antichi avevano detto ciò che dovevano e si erano ritirati.
“Usa tutte le tue risorse” mi avevano detto. “Cogli le opportunità che ti circondano.”
Mi alzai e andai al computer. La paratia trasparente mi disse che stavamo volando a velocità relativistica e che non avevamo ancora effettuato il balzo nell’iperspazio. Digitai la parola chiave relativa al programma tattico: un’intera squadriglia di incrociatori dell’Egemonia ci stava inseguendo. Secondo la strategia elaborata, avremmo raggiunto la velocità della luce prima che loro si avvicinassero al punto da diventare una minaccia. E una volta superata quella barriera, saremmo stati al sicuro.
Ma non avremmo più avuto la possibilità di mandare una nave a recuperare i miei uomini. Qualunque cosa decidessi di fare, avrei dovuto agire prima del salto nell’iperspazio.
Mi restavano meno di due ore.
16
Trascorsi una mezz’ora davanti al video, studiando il Blood Hunter in ogni dettaglio. Ero particolarmente interessato ai velivoli ausiliari che la nave madre trasportava. Ce n’erano di minuscoli e di abbastanza grandi da contenere intere squadre d’assalto.
Ne individuai uno che mi sembrò perfetto per il mio piano: una navetta da ricognizione con una buona capacità di trasporto e autonomia di volo sufficiente a coprire il tragitto fino a Lunga. Sempre che riuscissi a sganciarla dal Blood Hunter prima che questo raggiungesse la velocità della luce.
Dovevo agire con tempestività. Provavo un vago rimorso nei confronti del comandante, che con tanta generosità mi aveva offerto la sua amicizia ma, come lui stesso aveva rilevato, la guerra non è mai piacevole.
Non disponevo di armi, ma almeno avevo un’uniforme decente. Era blu cielo, con il collo rigido e un’alta cintura dorata. La fibbia, notai, raffigurava un sole raggiato. Il simbolo del Radioso. Quella vista mi strappò una smorfia di disgusto, ma me la strinsi intorno alla vita, rimpiangendo di non avere una pistola da assicurarvi.
Uscii nel corridoio e raggiunsi il livello in cui erano ospitati gli scienziati. Nessuno dei Tsihn che incontrai cercò di fermarmi. Ne fui incoraggiato.
Il portello era chiuso, ma non c’erano sentinelle. Lo aprii e sgusciai dentro. Gli umani si stavano preparando per la notte.
— Tutti in piedi! —ordinai. —Abbandoniamo la nave. “Immediatamente”.
Opposero qualche resistenza, ma quando spiegai a Delos che contavo di riportarli a Lunga, lui si fece in quattro per coordinare gli altri. Ora veniva la parte più difficile: raggiungere l’hangar che ospitava il velivolo di ricognizione.
— Restate uniti e seguitemi —dissi. —Se qualcuno ci ferma, lasciate parlare me.
Quasi funzionò.
Marciammo lungo il corridoio e scendemmo la scala elettrica che portava all’hangar. Alcuni Tsihn ci passarono accanto, ma senza curarsi di chiederci che cosa facessimo lì. Non c’erano sentinelle a bordo della navetta da ricognizione, ma quattro meccanici stavano effettuando certe riparazioni su mezzi più piccoli.
— Questo settore è vietato al personale non autorizzato —ci informò il più grosso dei quattro.
— Lo stiamo solo attraversando —mi affrettai a spiegare.
Non servì. —Addetti alla sicurezza! —gridò lui nel microfono inserito in una paratia. —Un gruppo di umani non autorizzati è penetrato nell’hangar!
Sorrisi con approvazione. —Molto bene. Il comandante apprezzerà certamente il suo senso del dovere.
E passai oltre, seguito dal capannello di scienziati.
La navetta riposava immobile nella gondola, un voluminoso, sgraziato ammasso di abitacoli, stive, contenitori e motori a propulsione. Un’autentica nave spaziale, progettata per non inoltrarsi mai in un’atmosfera o atterrare sulla superficie di un pianeta.
— Fa’ salire a bordo gli altri —dissi a Delos, mentre facevo alzare i pannelli di copertura dei controlli della porta.
— ADDETTI ALLA SICUREZZA DELL’HANGAR. IMMEDIATAMENTE —latrò l’interfono.
Non c’era tempo per esaminare i dispositivi di funzionamento delle porte. E in ogni caso, quelli centrali erano sul ponte di comando. Con un pugno, fracassai il quadro comandi, quindi afferrai il bordo del portello superiore e tirai. Si mosse quasi con riluttanza, ma di lì a qualche istante era chiuso e assicurato.
Il portello della camera di decompressione era un’altra faccenda. Mi ci strizzai dentro.
— Sigillatelo non appena saranno tutti a bordo —dissi all’uomo che mi stava accanto, poi mi avviai verso l’abitacolo. Delos era già seduto al posto del pilota e stava avviando i motori. Presi posto sull’altro.