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Sentivo il gelo del sonno crionico nelle ossa. —Non dovrebbe fare un po’ più caldo? —domandai.

L’altro mi lanciò un’occhiata di disapprovazione. —So quello che faccio, soldato.

— Naturalmente.

— Per un po’ si sentiranno disorientati. Le informazioni che hanno ricevuto durante la fase di risveglio resteranno a livello inconscio finché non verranno portate in superficie con la parola chiave.

La frase chiave, lo sapevo, era semplicemente il nome di un asteroide: Bititu.

— Gli ultimi veri ricordi riguarderanno ciò che hanno visto e udito prima di venire ibernati.

Guerrieri Skorpis che li trascinavano verso le capsule. Quei poveretti avrebbero creduto che venivano ridestati solo per l’esecuzione rituale.

— Non c’è un modo per spiegare loro che sono al sicuro, che non sono più prigionieri degli Skorpis?

Il medico mi fissò. —È questo che è successo? Sono stati congelati da quei maledetti gatti?

— Sì.

— Merda! —sibilò, mentre pestava con rabbia i tasti del computer. —Nessuno mi dice mai niente. Fottutissimo esercito… —borbottò.

Sollevò lo sguardo dalla tastiera. —È troppo tardi. Non posso fare niente. Stanno cominciando a svegliarsi e credono di essere ancora prigionieri. Se nessuno di loro avrà un attacco di cuore, sarà un fottuto miracolo.

Cercai di pensare in fretta. Cosa potevo fare? E se avessi cercato di raggiungerli con il pensiero e informarli che erano in salvo e non avevano più niente da temere?

Ma era davvero troppo tardi. Si sentì un clic, poi un sibilo: una delle capsule si era aperta e da essa usciva vapore biancastro. Altre se ne aprirono subito dopo.

Qualcuno gemeva, alcuni piangevano come bambini abbandonati dalla madre.

Mi affrettai verso la capsula più vicina. Vidi un soldato sollevarsi di scatto a sedere, gli occhi dilatati dalla paura.

— Va tutto bene —dissi ad alta voce. —Sei al sicuro, non sei più un prigioniero.

A uno a uno, si svegliarono tutti. Alcuni erano cerei in volto e tremavano. Altri si sollevarono con i pugni chiusi e la mascella serrata, pronti a combattere. Erano quasi tutti piuttosto malconci, con le labbra e gli occhi gonfi e cerchiati, i capelli incrostati di sangue rappreso. Sicuramente non erano entrati in quelle capsule senza lottare.

Cercai Frede. Stava aprendo gli occhi, quando la scorsi.

— Orion? —sussurrò quando mi chinai nella nube di vapore che la avvolgeva. —Hanno preso anche te?

Aveva una guancia gonfia e illividita, e una ferita sul braccio.

— No —la rassicurai. —Sono stato io a prendervi a loro. Ora siete al sicuro. Va tutto bene.

— Al sicuro?

— Ci troviamo in una stazione Tsihn; non siete più alla base Skorpis.

La aiutai a sedersi. Sembrava confusa, disorientata. —Non… non siamo prigionieri?

— Non più. Siete in salvo.

Si guardò attorno, sbattendo le ciglia più volte. —All’inferno, che mal di testa —mormorò. Poi mi gettò le braccia al collo e mi baciò con un tale trasporto che gli altri, benché appena risvegliati, cominciarono a fischiare e urlare.

In quel momento, qualcuno gridò, un grido di agonia, o forse di terrore. Mi sciolsi dall’abbraccio di Frede e corsi alla capsula da dove proveniva il grido. Il tenente Quint, ancora disteso e con gli occhi chiusi, urlava come un ossesso. Teneva le mani protese in avanti, in un gesto di difesa, e scalciava forsennatamente.

— Va tutto bene, Quint! —gridai a mia volta. —Sei al sicuro!

Fu come se non mi avesse sentito. Mi chinai ad afferrarlo per il collo della camicia e lo scrollai con forza più volte. Inutile; Quint si ostinava e tenere gli occhi serrati e a borbottare parole incomprensibili.

Lo schiaffeggiai; non era ferito, notai. —Svegliati! Sono io, Orion. Ormai sei al sicuro.

Tremava come una foglia, ma aprì gli occhi e mi fissò.

— Non sei più tra gli Skorpis —ripresi con tono più dolce. —Non hai più niente da temere.

Altri soldati si erano alzati dalle loro capsule e a passi incerti ci avevano raggiunto. Un odore sgradevole mi fece capire che Quint si era liberato vescica e intestino; se prima dell’ibernazione o al risveglio, non avrei saputo dirlo.

Non volevo che gli altri lo vedessero in quello stato.

— Diamogli il tempo di riprendersi.

Li allontanai con un cenno e ordinai che si mettessero in fila. Erano feriti, sporchi e con le uniformi lacere, ma erano vivi e mi guardavano sogghignando.

— Ce ne saranno stati sicuramente di conciati peggio —risi. —Ma io spero di non vederli mai. Sergenti, fate lavare questi bastardi, trovate gli alloggi e vedete che abbiano uniformi pulite e armi. Gli ufficiali vengano con me.

Erano veterani, in grado di mantenere la disciplina ovunque si trovassero, e in qualunque circostanza. Quanto a me, ci tenevo che i soldati semplici fossero usciti tutti prima di occuparmi di Quint.

Era in uno stato psicofisico pietoso. Frede era l’unico altro tenente sopravvissuto e fu lei ad aiutarmi a trasportarlo al centro di riabilitazione. Con noi venne anche l’ufficiale medico che aveva sovrinteso alle fasi del risveglio.

— Ne ho già visti di ridotti come lui —commentò mentre un paio di robot infermieri prendevano delicatamente Quint tra le pinze metalliche, sollevandolo.

— Non potrà riprendere il servizio attivo fino a quando non sarà stato completamente deprogrammato e riaddestrato. E forse, neppure allora.

— Che ne sarà di lui? —domandai.

Il medico si strinse nelle spalle. —Oh, gli troveranno lavoro in qualche ufficio, immagino. Non avrà problemi a mandare altri soldati a combattere; ma lui… lui non è più fatto per la guerra.

Avrei dovuto provare pietà per Quint; invece, ero risentito, quasi arrabbiato.

Frede me lo lesse in faccia. —Non è colpa sua —disse. —Non è di buona lega.

— Come fai a dirlo?

Lei scrollò le spalle. —Che importanza ha?

Aveva ragione. Che importanza aveva? Nonostante l’addestramento, nonostante fosse stato creato per fare il soldato, nonostante una vita spesa nell’esercito, in Quint ogni combattività si era spenta. Avrei dovuto capirlo su Lunga quando, mentre noi lottavamo per sopravvivere, lui si nascondeva in qualche buco, la testa bassa per non guardare in faccia la morte.

— Per un soldato pensare troppo è dannoso —disse ancora Frede quando, lasciato Quint alle cure dei medici, andammo in cerca dei nostri compagni.

— Forse no. —Pensavo a Randa, secondo la quale i soldati non erano neppure in grado di pensare.

— Ora sei tu il mio comandante in seconda —osservai poi. Stavamo percorrendo una serie di corridoi, guidati dai display montati sulle pareti metalliche. Quasi tutti quelli che incrociammo in quel settore erano umani, fatta eccezione per qualche Tsihn e pochissimi di altre razze.

Lei annuì. —Resteremo qui, oppure ci manderanno in un centro di riposo e riabilitazione?

— Né l’una né l’altra cosa. Ci è stata già assegnata un’altra missione.

— Senza neanche darci il tempo di riprendere fiato? —Frede era indignata, e improvvisamente mi resi conto che era colpa mia.

— Sono stato io a chiedere di avervi con me —confessai.

— Di quale missione si tratta?

— Bititu. È un asteroide nel…

Mi interruppe il lampo che si accese brevemente nei suoi occhi. Senza pensarci, avevo pronunciato la parola chiave e ora le informazioni memorizzate stavano lentamente affiorando dall’inconscio.

— Mai quella più facile per noi, eh? —esclamò.

— Non avrei dovuto chiedere la vostra presenza —mi scusai. —Forse potrei farvi esonerare…