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— Impossibile. Non ora, non dopo che siamo stati programmati per questa missione. O ci mandano su Bititu o ci ibernano di nuovo.

Ero senza parole. Non mi era neppure passato per la mente che i miei soldati meritassero un po’ di riposo dopo quanto avevano affrontato su Lunga. E Bititu, prometteva di essere perfino peggiore.

— C’è un particolare della pianificazione che vorrei rivedere —disse Frede quando fummo vicini ai nostri alloggi.

— Quale sarebbe?

— Siamo stati assegnati a partner diversi.

— Questa è la procedura standard, no? L’esercito non vuole coinvolgimenti emotivi fra i suoi ragazzi.

— Giusto, ma ora sei al comando di un battaglione e il grado ha i suoi privilegi.

— Non so se dovrei…

— Non tu —mi interruppe lei con un sorriso malizioso. —Sono o non sono il comandante in seconda? Vuoi dire che approfitterò del “grado” per sostituire la stronza che ti hanno assegnato.

19

Così, quando ci imbarcammo per Bititu, il tenente Frede era il mio comandante in seconda e la mia compagna di letto.

La nostra nave andò a unirsi a una flotta piuttosto consistente di corazzate. Il piano prevedeva che raggiungessimo il sistema di Jilbert a una velocità superiore a quella della luce, così da limitare il rischio di intercettazioni negli ultimi istanti, quando saremmo stati costretti a rallentare. Non sarebbe stato un affare da poco, ma l’ammiraglio Tsihn mi assicurò che saremmo arrivati a poche ore luce da Jilbert.

— In questo modo —spiegò —l’Egemonia non avrà il tempo di rafforzare il sistema.

La sala-riunioni era calda e asciutta, al punto che sembrava di essere nel deserto. Eravamo seduti a un tavolo su due livelli; uno ad altezza d’uomo, l’altro più alto di parecchi centimetri, e destinato agli ufficiali Tsihn. Il loro ammiraglio era, naturalmente, il più grosso di tutti; alto quasi tre metri, aveva il petto dalle scaglie brune coperto di medaglie e altri simboli del suo alto grado.

Le pareti della sala erano tappezzate di riproduzioni tridimensionali di aridi paesaggi rocciosi sovrastati da un cielo color bronzo. La tentazione era quella di proteggersi gli occhi con la mano, ma in realtà la luce non era poi così abbagliante.

— La base dell’Egemonia più vicina a Bititu è nel sistema di Justice —feci notare io. —Dista solo una dozzina di anni luce. Il nemico potrebbe inviare una flotta a Bititu prima che noi ne prendiamo possesso.

Rapidissima, la lingua dell’ammiraglio saettò fra i denti e scomparve di nuovo.

— Resteremo nel sistema di Jilbert finché non avrete raggiunto Bititu, non temere —replicò. —La mia flotta è abbastanza potente da tener testa a eventuali tentativi dell’Egemonia di rinforzare le difese intorno a Bititu. Di fatto —proseguì —ci auguriamo qualcosa del genere. Una mossa dell’Egemonia ci darebbe l’opportunità di distruggere una delle sue flotte.

Ero lieto di sentirlo tanto sicuro di sé, ma un’occhiata a Frede e agli altri miei ufficiali mi disse che non condividevano l’ottimismo dell’ammiraglio.

Il mio battaglione trascorse la maggior parte del viaggio addestrandosi. Trasformammo corridoi e compartimenti in tunnel e caverne, gli stessi che ci aspettavamo di trovare su Bititu, e svolgevamo continue esercitazioni. La nostra tattica non prevedeva sottigliezze, basata com’era sull’uso della forza bruta e delle armi. Sapevo che le perdite sarebbero state ingenti.

— Perché la flotta non si limita a far esplodere quel maledetto asteroide e a cancellarlo una volta per tutte dallo spazio? —mi domandò Frede una notte. —Perché Bititu è così importante?

Non avevo risposte convincenti da darle, perciò mi limitai a dire: —Forse la Suprema Alleanza vuole usarlo come base, dopo che lo avremo liberato dall’Egemonia.

— Sai che cosa penso? —fece lei, e continuò senza aspettare la mia risposta: —Penso che sia per via di quegli scienziati teste d’uovo. Vogliono esemplari di Aracnidi da studiare, e vogliono costringerci a catturarli vivi.

— Ma stando ai rapporti, gli Aracnidi combattono fino alla morte —replicai.

— Vallo a far capire agli scienziati!

— Nondimeno —riflettei ad alta voce —la flotta potrebbe bombardare l’asteroide prima del nostro sbarco. Morirebbero gli esemplari sulla superficie, ma non quelli nascosti nelle gallerie e nelle caverne.

— E per noi sarebbe tutto più facile —concordò Frede.

Ma quando sollevai la questione con il vice dell’ammiraglio, un rettile dalle scaglie multicolori, la risposta fu: nessun bombardamento preliminare. Sarebbe servito solo ad allertare gli alleati degli Aracnidi e a ritardare il nostro sbarco.

— Ma una volta nel sistema di Jilbert, a diverse ore-luce dall’asteroide, non li allerteremo ugualmente? —obiettai.

— Nessun bombardamento preliminare —ripeté il rettile. —Il piano non subirà variazioni.

Chiesi di discuterne con l’ammiraglio, ma l’autorizzazione mi fu negata. Avevo l’impressione che gli strateghi che avevano pianificato quell’operazione volessero conquistare Bititu senza danneggiarlo. Erano dispostissimi a mandarci al massacro, pur di mantenere intatto l’asteroide. Ma io la pensavo diversamente.

Affidai a Frede e agli altri ufficiali il compito di esaminare nei minimi particolari le immagini di Bititu, e io stesso passai buona parte delle mie notti su quelle riproduzioni, contrassegnando tutto quello che assomigliava a una botola o a un deposito di armi. Poi, assegnai ciascun obiettivo a uno dei plotoni dotati di armi pesanti.

Il mio piano era di distruggere le difese in superficie durante la fase di sbarco. Perché starcene all’interno dei velivoli senza far nulla? In caso contrario, temevo, le difese degli Aracnidi ci avrebbero fatto saltare in aria prima che atterrassimo.

A mano a mano che ci avvicinavamo al sistema di Jilbert, appesantii ulteriormente l’addestramento. I soldati dormivano poco e ancor meno riposavano. Tutti i giorni e quasi tutte le notti percorrevamo di corsa i corridoi, e, quando non prendevamo d’assalto i tunnel fittizi, studiavamo le immagini di Bititu, memorizzandone ogni crepa, ogni foro.

Qualcuno cominciò a lamentarsi, sostenendo che al momento buono sarebbero stati troppo stanchi per combattere. Reagii stabilendo turni ancora più duri.

— Tra sei ore arriveremo alla velocità relativistica —mi comunicò finalmente un ufficiale Tsihn. —Poi ce ne vorranno altre due o tre per arrivare al luogo dell’imbarco.

Feci preparare i miei soldati e marciammo verso i bacini di carico, dove i velivoli da sbarco erano in attesa, cantando vecchie canzoni di guerra e di sangue. Su mia precisa richiesta, le tute spaziali erano bianche, in modo che potessimo individuarci facilmente a vicenda nelle buie gallerie di Bititu. Nessuno sapeva quali fossero le capacità visive degli Aracnidi, e se distinguessero facilmente il bianco dagli altri colori, ma ero deciso a evitare almeno che ci sparassimo addosso.

Assegnai la fanteria al primo dei quaranta velivoli; io stesso avrei fatto parte del primo reparto.

Frede mi venne vicino, con la visiera del casco sollevata e un sorriso esitante.

— Bene, siamo pronti —disse con voce leggermente tremante.

— Fa’ in modo che la tua squadra colpisca tutti gli obiettivi assegnati —replicai. —Soprattutto le camere di decompressione. Forse quei ragni possono respirare anche in assenza d’aria, ma ne dubito.

— Non mi sono mai piaciuti i ragni —commentò Frede.

— Ora hai l’opportunità di ucciderne a migliaia. Annuì, poi abbassò la visiera e caracollò verso il suo velivolo. Chiusi anch’io la visiera. Avevo fatto tutto il possibile. Ora si trattava di noi o di loro, e non ci sarebbe stata pietà.

Le navette da sbarco erano poco più di gusci corazzati muniti di maniglie e dispositivi di propulsione a poppa. Lasciammo il cargo e scivolammo nell’oscurità dello spazio.