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— Si va —disse uno dei soldati. Sentii la sua voce tesa, quasi tremante, attraverso gli auricolari del casco.

— Un altro viaggio gratis, gentilmente offerto dall’esercito.

— Buon divertimento!

— Già. Bisogna esserci nati.

Questa volta, nessuno rise.

In lontananza, la stella rossastra non irradiava quasi luce. La buia sagoma di Bititu sembrava fluttuare tra le stelle. E noi sembravamo sospesi nel vuoto, appena mossi da lievi oscillazioni. Attaccato alla maniglia, circondato dagli uomini della fanteria pesante, dovetti ruotare il corpo per intero per lanciare un ultimo sguardo alla nave trasporto. Più lontano, erano visibili centinaia di incrociatori da battaglia, affusolati e micidiali, in grado di ridurre in polvere Bititu e i suoi difensori.

Con disperata lentezza, ci avvicinavamo all’asteroide. Mi sentivo nudo e solo, benché indossassi la tuta e fossi circondato da decine di soldati. Sull’asteroide, non un segno di vita, non un baluginìo… Bititu, un insignificante ammasso di roccia dalla superficie deturpata da crateri e grotte.

Guardai l’orologio inserito nel polsino della tuta. Il conto alla rovescia sarebbe iniziato con l’attacco alle difese di superficie. Mancavano centonove secondi di agonia.

Vidi qualcosa balenare sull’asteroide. Un riflesso? No, la luce di Jilbert era troppo debole e rossastra. Poi ne vidi un altro e lo scudo frontale di un nostro velivolo parve incendiarsi. Da fessure insospettate, i missili erompevano contro di noi con guizzi luminosi. Colpiti esplodevano in silenziose palle di fuoco, ma continuavano ad arrivare, ed erano sempre più vicini.

Una navetta fu centrata in pieno ed esplose in mille frammenti incandescenti. Poi un’altra, e un’altra ancora. Grida di agonia echeggiavano nei miei auricolari.

— Mirate agli obiettivi di superficie! —gridai al microfono. —Fanteria pesante, contro la superficie. Tutti gli altri plotoni usino le armi antimissili.

Le mie truppe, ben addestrate, obbedirono all’istante. Ma i missili sbucavano dai punti più inaspettati del terreno. Uno esplose a pochi metri da me, e il calore che irradiava era tale da penetrare all’interno della tuta. Un pezzo incandescente colpì le bombole di ossigeno che un soldato aveva sulle spalle. L’uomo scomparve tra gigantesche lingue fiammeggianti.

Attorno a noi, una fantasmagoria di fuoco e colori. I raggi laser squarciavano l’oscurità, accendendo il cielo di sinistri bagliori, ma ormai eravamo vicini. Il nemico, intanto, era passato ad armi più leggere. Un soldato semplice che mi stava vicino fu colpito, e il sangue che sgorgò a getto dalla tuta si solidificò istantaneamente in grumi rossastri. Metà degli equipaggi delle navette era stata uccisa quando toccammo terra.

Balzai fuori, nell’atmosfera quasi priva di gravità, e feci saltare un portello che si apriva parzialmente nella roccia. Era faticoso mantenere la presa sulla superficie; regolai il volazaino e una parvenza di peso mi aiutò ad appiattirmi a terra mentre una salva di raggi laser e proiettili mi passava sibilando sopra la testa.

Voci disperate mi tempestavano.

— Siamo circondati!

— Ho perso il settanta per cento degli uomini! Dobbiamo allontanarci immediatamente.

— Dov’è la fanteria pesante? Deve coprirmi le spalle… subito!

Presi una granata e la scagliai contro il portello di una botola. Esplose senza un suono, mentre il fumo si dissipava rapidamente davanti ai miei occhi, come l’avessi soltanto sognato.

— Giù nel tunnel! —gridai al microfono. —Chi resta in superficie morirà. Coraggio, nel tunnel!

Lanciai un’altra granata nell’imboccatura della galleria, poi scivolai dentro senza smettere di sparare, nella speranza di eliminare eventuali nemici nascosti tra le crepe.

Il tunnel, strettissimo, mi permetteva soltanto di strisciare, ed era tanto buio che dovetti accendere la lampada montata sul casco. Sentii un rumore dietro di me. Mi voltai sulla schiena, la pistola spianata.

— Sono io, signore —mormorò un soldato, e aguzzando gli occhi intravidi una sagoma bianca, anonima come il volto di una scultura, strisciare alle mie spalle.

Girandomi di nuovo sul ventre, mi trovai faccia a faccia con il primo Aracnide. Era nero, largo più di un metro, con otto esili zampe coperte di peluria. Tra le due anteriori, stringeva un oggetto di forma allungata, qualcosa con pinne e una specie di lente puntata contro di me. Dietro l’arma, due mandibole che si aprivano e si chiudevano ritmicamente, e otto occhi, uno diverso dall’altro, fissi su di me.

Chinai la testa, premendo la visiera a terra, e contemporaneamente feci fuoco. Un’ondata di calore investì la sommità del casco, seguita da un gemito stridulo e quindi da un ticchettio di chele sulla roccia nuda.

Quando tornai a sollevare lo sguardo, il ragno era sparito, lasciando dietro di sé una scia di bava giallastra. Solo allora mi accorsi di una galleria che si dipartiva da quella principale. Vi scagliai una granata che esplose immediatamente, coprendomi di detriti e di polvere.

Avanzai carponi verso l’imboccatura del secondo tunnel, dopo aver avvertito i miei di fare strada ai compagni. Le segnalazioni si susseguivano senza sosta.

— Sono milioni!

— Ci stanno inseguendo! Siamo circondati!

— Dobbiamo uscire da questo buco! Sono in troppi!

Ma non c’era modo di uscire. E neppure avremmo potuto tornare ai velivoli, che erano ripartiti subito dopo il nostro sbarco.

Sbirciai nell’oscurità del tunnel. Non vidi nulla, ma percepii suoni graffianti e fievoli strida. L’aria nella galleria era sufficiente a trasportare i rumori fino a me, oppure era la roccia stessa a propagare onde sonore. In lontananza, sentivo il crepitio incessante delle pistole laser. Ed esplosioni, alcune tanto violente da scuotere le pareti di roccia. Polvere, fumo e grida disperate.

— Ce ne sono altri!

— Attenti! È una trappola!

Il tunnel all’improvviso si allargò. La luce proiettata dalla lampada montata sul casco era rossastra e non mi consentiva una visione nitida. Mi venne da pensare che, come noi avevamo messo a punto sensori capaci di individuare lunghezze d’onda invisibili ai nostri occhi, gli Aracnidi avevano forse sviluppato tecnologie di integrazione ai loro sensi naturali. Mi affrettai a spegnere la lampada e proseguii con il solo aiuto degli infrarossi della visiera.

Una detonazione echeggiò alle mie spalle, troppo violenta per essere causata da una granata. Una nube di polvere invase la galleria. Sentii di nuovo il rumore graffiante, e da un corridoio laterale sbucò un ragno. Lo divisi in due con un colpo di fucile. Aguzzai gli occhi per guardare dietro il cadavere e distinsi qualcosa che strisciava lento verso di me. Attesi che i suoi contorni si facessero più nitidi. Un altro ragno. Lo uccisi centrandolo in mezzo al grappolo di occhi.

Ripresi quindi la mia lenta avanzata nel tunnel che si faceva sempre più largo e più alto.

— Mi restano solo sei uomini. Dobbiamo uscire di qui!

— Continuate ad avanzare verso il centro dell’asteroide! —urlai al microfono. —Nessuno uscirà finché ci sarà anche un solo Aracnide vivo!

— Attento, signore!

Rotolai su me stesso e vidi sei Aracnidi calarsi da un portello che si apriva nella volta del tunnel, proprio dietro di me. Il soldato che aveva lanciato l’avvertimento aprì immediatamente il fuoco. Due ragni si slanciarono verso di me. Colpii il primo all’addome, tanto era vicino, ma il secondo mi era già addosso e mi premeva la canna della pistola sul petto. Sparò. Nell’istante in cui il raggio penetrava la tuta e mi ustionava la pelle, con il calcio del fucile gli feci saltar via l’arma. Ruggendo di dolore, gli cacciai il fucile nell’addome e premetti il grilletto. Il mostro esplose, sprizzando su di me e per tutto il tunnel frammenti giallastri e appiccicosi.