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Ma, prevedibilmente, qualche battuta non mancò. Alcuni tra i ragazzi cercavano di mascherare la tensione tentando patetici scherzi.

— Com’è che tocca sempre a noi andare? Perché non mandano qualche altra squadra?

— Perché noi siamo tutti eroi, non lo sapevi?

— Già. Avremo tutti una medaglia per il nostro eroismo —commentò un altro con amarezza.

— Che c’è, soldato? L’esercito non ti piace?

— Sai come si dice: “Bisogna esserci nati”.

A quell’ultima battuta, scoppiarono tutti a ridere, anche quello che si era lamentato. Ma la loro risata suonò amara alle mie orecchie.

— Ora basta, bastardi! —abbaiò il sergente. —Ai vostri posti! Questo non è un viaggio di piacere.

Ragazzi. Fisicamente, non sembravo molto più vecchio di loro, ma io sapevo di aver vissuto molte vite, di essere morto e poi tornato in vita. Gli Skorpis erano nati per la guerra, giusto? E così io. Aton mi aveva creato per essere un guerriero, un cacciatore, un assassino.

Lo stesso valeva per quei giovani, stando alle istruzioni che lo stesso Aton mi aveva dato. Clonati da antenati morti da tempo, tenuti in gestazione in uteri artificiali, fin dall’infanzia erano stati addestrati a essere soldati e niente altro. Erano cresciuti in campi militari, senza mai venire a contatto con la società civile che dovevano difendere. Conoscevano solo la guerra, e i brevi periodi di addestramento fra una missione e l’altra.

Alcuni degli ufficiali più anziani erano stati concepiti naturalmente, all’interno di famiglie normali, e si erano arruolati di propria volontà. Ma pochissimi, anche tra quelli di grado più elevato, avevano una casa e una famiglia che non fosse l’esercito. Come me, erano stati creati per combattere fino alla morte.

Ricordai il Contingente Sacro dell’antica Tebe, composto da soldati che preferivano perire in battaglia piuttosto che abbandonare i compagni. E in battaglia erano morti, fino all’ultimo uomo, quando i Macedoni di Filippo li avevano affrontati nella battaglia di Cheronea. Io ero lì, con Filippo e suo figlio Alessandro. Avevo preso parte alla carneficina.

E questi giovani? Avrebbero anche loro combattuto fino all’ultimo uomo… o all’ultima donna? Ripensai alle parole che un vecchio generale aveva rivolto ai suoi uomini: “Il vostro compito non è morire per il vostro paese. Il vostro compito è far sì che un altro povero figlio di puttana muoia per il ‘suo’ paese”.

Il mio compito era fare in modo che quei giovani vincessero le loro battaglie con il minor numero possibile di perdite. Non li conoscevo, almeno non singolarmente, ma ero deciso a essere un buon comandante. Ci sarei riuscito, o li avrei mandati tutti a morire?

Il momento della verifica si avvicinava in fretta. La nostra navetta fu espulsa dalla piattaforma di lancio dell’astronave, e il contraccolpo ci schiacciò con violenza contro i sedili imbottiti di liquido. Non c’erano finestre, né schermi all’interno del piccolo velivolo; solo le oscillazioni del volo ipersonico e poi l’improvviso choc dell’impatto con l’atmosfera, e il suo attraversamento, rapido come la traiettoria di una meteora.

L’intera squadra taceva, ora. La tensione era al massimo. Il nemico aveva scagliato missili nucleari contro la nostra flotta. Il piano prevedeva che atterrassimo sull’altra faccia del pianeta, lontano dall’unica base avversaria, ma se ce ne fossero state altre che i nostri detector non avevano localizzato? Avevamo fatto piazza pulita dei loro in orbita attorno al pianeta, ma se le loro navi ci avessero intercettato? Sarebbe bastato un solo raggio laser o un missile per far esplodere la nostra navetta. E noi con essa.

— Ci stiamo avvicinando alla zona di lancio —annunciò una voce dalla cabina di comando, poco più di un sussurro attraverso gli auricolari del mio casco.

La navetta vibrava, a mano a mano che penetrava l’atmosfera, e per il calore il suo guscio era diventato rosso incandescente. Mi alzai, incerto sulle gambe per i continui scossoni.

— In piedi! —urlò il sergente. Conoscevo il suo nome. Si chiamava Manfred ed era un veterano, un tipo duro, capace di forgiare il suo drappello in un’unità pronta a seguirlo ovunque senza fare domande e al cui interno ciascuno si prendeva cura dei suoi compagni, in guerra come durante gli addestramenti.

I tenenti viaggiavano a bordo delle altre tre navette. Il nostro piano prevedeva l’individuazione di quattro aree di atterraggio in una zona priva di vegetazione e la formazione di quattro squadre che avrebbero proceduto a installare la stazione, mantenendo intorno a essa una cintura difensiva.

Era un atterraggio notturno… a mio avviso, una precauzione inutile, dato che i sensori nemici potevano intercettarci sia al buio sia alla luce del giorno, e che serviva solo a renderci le cose più difficili. Ma nelle alte sfere era stato deciso così, per ragioni che nessuno si era degnato di spiegarci.

Agganciammo i volazaini, indossammo i caschi e ci mettemmo in fila per il lancio. Io ero il primo.

— Dieci secondi al lancio —mi annunciò la voce attraverso gli auricolari.

Il portellone si sollevò lentamente e un vento gelido mi aggredì, facendomi quasi indietreggiare. Automaticamente, abbassai la visiera del casco. Fuori il buio era totale, ma la visiera mi permise una migliore messa a fuoco.

Quello che vidi non mi incoraggiò: una fitta zona alberata che si stendeva senza interruzioni sotto di noi. Lanciarsi in quella barriera verdeggiante sarebbe stato un suicidio.

— Lanciarsi! —fu l’ordine.

Mi lanciai.

Il volazaino vibrava sulle mie spalle e all’improvviso mi trovai a fluttuare in aria. Grazie ai sensori inseriti nella visiera, vedevo il tappeto di alberi farsi lentamente più vicino. Ma dov’era lo spiazzo su cui avremmo dovuto atterrare?

Galleggiavo. La sfera di energia prodotta dal volazaino si opponeva sia alla forza di gravità sia a quella di inerzia, e io cadevo lentamente, come una foglia che si stacca dall’albero e volteggia piano, prima di adagiarsi sul terreno. Era una sensazione piacevole, ma se fossi atterrato sugli alberi, avrei avuto poche possibilità di cavarmela senza danni.

La discesa durò pochi secondi, che a me parvero un’eternità. Finalmente, vidi il bordo della piazzola, nel punto in cui la barriera degli alberi si interrompeva bruscamente per lasciare il posto a un prato.

Girandomi sulla schiena, guardai il cielo stellato e contai venticinque figurette dietro le quali ondeggiavano le sagome più voluminose dei componenti della trasmittente. Con la coda dell’occhio, intravvidi anche il nostro veicolo di atterraggio, pronto a decollare di nuovo per tornare verso la nave.

Mi girai di nuovo, per prepararmi a un atterraggio morbido. Toccai il terreno con gli stivali, poi mossi qualche passo. Immediatamente mi sentii sprofondare.

— È una palude! —gridai nel microfono del casco. —Non atterrate! Cercate un punto più solido!

Tentai di uscire dalle sabbie mobili, ma la gamba sinistra mi era rimasta impigliata in qualcosa. Sentii il sergente Manfred e i suoi uomini gridare: —Sembrano rocce da quassù.

— Scendete lentamente e controllate che sia terreno solido.

— Ma si… Yaargh! —Un grido.

Armeggiai con la leva di comando dello zaino polivalente, lentamente perché avevo ancora la gamba bloccata e non volevo strapparmi un tendine. Allo stesso tempo, cercavo con lo sguardo gli uomini che erano ancora sospesi in aria alla ricerca di un atterraggio sicuro. Uno di loro aveva gridato. Perché?

— Guardate! C’è qualcosa che si muove!