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Il soldato alle mie spalle era morto con la testa fracassata, ma accanto a lui giacevano i cadaveri di altri due ragni, e un terzo, agonizzante, agitava debolmente le zampe. Il foro aperto nella mia tuta si stava richiudendo e all’interno il sistema medico stava spruzzando un liquido disinfettante, cicatrizzante e analgesico sulla ferita.

Il mio pensiero andò al sesto Aracnide, l’unico scampato. Dov’era? Forse nascosto in qualche recesso, pronto a tenderci una trappola?

Di fronte a me scorsi una luce lontana. Mi mossi in quella direzione. Diverse gallerie convergevano tutte in una sorta di caverna le cui pareti, spalmate di una sostanza fluorescente, emanavano la sgradevole luce giallo-verdastra che mi aveva attirato lì.

Esitai. Sentivo il crepitìo delle pistole laser e l’eco delle esplosioni delle granate. Quella caverna sembrava un punto nodale, e tuttavia pareva priva di difese. Da una galleria laterale arrivarono grida di dolore, e subito dopo tre Aracnidi entrarono zampettando a ritroso nella caverna. Uno di loro infilò un artiglio in una fessura del pavimento e fece scorrere un portello, perfettamente mimetizzato nella roccia.

Proprio in quel momento, i suoi compagni si accorsero di me. Sparai a entrambi, mentre il terzo si calava nell’apertura.

Con il primo colpo di fucile avevo fatto a pezzi un Aracnide e staccato una zampa all’altro, che rispose al fuoco bruciandomi la spalla della tuta. Lo uccisi.

Solo allora mi resi conto che le creature non indossavano protezione alcuna. Forse erano davvero in grado di respirare in un contesto privo di atmosfera, benché nei tunnel di aria ce ne fosse a sufficienza. Ma non era il momento per certe indagini. Il terzo mi lanciò contro una granata. Con i sensi sovraeccitati la vidi volteggiare lentamente in aria, colpire il terreno e rimbalzare verso di me. Indietreggiai verso la galleria da dove era venuto, e la granata esplose in una miriade di schegge. Lo spostamento d’aria mi strappò di mano il fucile. Benché stordito, capii subito di non essere ferito.

Il ragno si sporse dalla botola, la pistola laser puntata contro di me, ma io fui più veloce. Recuperai il fucile e non lo avevo ancora impugnato che stavo già sparando. Colpito agli occhi, l’Aracnide lanciò un grido stridulo e scomparve nella botola.

Strisciai fin lì e guardai giù: decine e decine di Aracnidi si agitavano intorno al compagno ferito. Senza pensarci un solo istante, afferrai una granata e la scaraventai dentro, poi chiusi il portello. La violenza dell’esplosione lo spalancò di nuovo.

Intanto, parecchi soldati stavano convergendo nella grotta dalle diverse gallerie. Avevano le tute macchiate di sangue e uno dei miei aveva perduto un braccio. Esausti, si lasciarono cadere a terra.

— Tutti gli ufficiali a rapporto —ordinai al microfono.

A uno a uno, si misero in collegamento con me. Di parecchi drappelli, erano sopravvissuti i soldati semplici, e furono loro a rispondermi. Non sentii la voce di Frede che all’ultimo.

— Qui Frede. Siamo ridotti a cinque effettivi, tutti feriti. Io sono l’unica ancora intera.

Studiando la mappa sulla visiera e i punti rossi che indicavano le posizioni dei miei uomini, constatai che avevamo più o meno ripulito due livelli delle gallerie che percorrevano l’asteroide. Ne restavano quattro, forse più. E io avevo perduto più del trenta per cento dei miei.

20

La calma che seguì aveva del soprannaturale. Nelle ombre del sottosuolo, la polvere danzava lenta. Almeno per il momento, i combattimenti erano cessati. Gli Aracnidi miravano probabilmente ad attirarci nelle gallerie dei livelli più bassi.

Avevo detto all’ufficiale medico di allestire la stazione di pronto soccorso e agli uomini di succhiare un po’ della sostanza nutriente che fuoriusciva dai “capezzoli” montati sui caschi. Il prodotto conteneva stimolatori neurali destinati a combattere gli effetti della stanchezza fisica e psicologica: i soldati lo chiamavano “succo della felicità”, “latte di mamma” e con nomi anche peggiori.

Mandai una squadra in superficie per recuperare le granate e gli esplosivi scaricati dai velivoli di sbarco. Il sergente al comando mi riferì che avevano sorpreso alcuni Aracnidi appostati dietro le carcasse di alcune navette.

— Li abbiamo uccisi tutti —concluse, e poi aggiunse: —Credo.

— Indossavano indumenti protettivi? —chiesi io.

— No, signore. Non quelli che ho visto io, almeno.

Ecco una notizia che avrebbe certamente interessato gli scienziati. Feci distribuire le armi tra i soldati sopravvissuti con l’ordine di bombardare pesantemente tutti gli accessi alle gallerie prima di penetrarvi.

— Fate saltare tutte le botole e i portelli —dissi. —Controllate accuratamente ogni crepa, ogni fessura nella roccia. Procedete lentamente e assicuratevi che la zona sia sgombra prima di avanzare.

E davvero procedemmo con lentezza esasperante. Le ore diventarono giorni. Ispezionammo gallerie e botole, in cerca di trappole e covi nascosti. In ultimo, mi misi in contatto con l’astronave madre per chiedere altri esplosivi.

— Avete qualcosa in grado di produrre fiamme a temperatura molto elevata? —domandai.

Dopo una breve consultazione, gli ufficiali Tsihn addetti agli armamenti mi proposero dei preparati chimici che, una volta miscelati, producevano spontaneamente le fiamme.

— Ottimo! Mandatemene più che potete!

Il Tsihn esitò. Vidi nel visore che la sua lingua dardeggiava nervosamente.

— Sono fluidi altamente volatili —spiegò. —Pericolosi da maneggiare.

Scoppiai a ridere. —Che cosa credete che stiamo facendo qui, un picnic?

Non comprese le parole, ma il senso era anche troppo chiaro, e nel giro di poche ore una navetta entrò in orbita di parcheggio a non più di cento metri dall’asteroide e scaricò dozzine di grossi fusti. Un ufficiale Tsihn scese nella caverna del secondo livello che avevo trasformato nella mia postazione di comando. Come noi, portava una tuta, ma la sua era immacolata.

Mi spiegò che i fluidi erano ipergolici. Bastava miscelarli perché producessero fiamme in grado di liquefare persino l’alluminio.

— Fantastico —approvai. —Proprio quello di cui abbiamo bisogno.

I fusti erano coperti da simboli Tsihn, per me null’altro che disegni astratti, piccoli punti neri sparsi sulla curvatura dei cilindri grigi.

— Maneggiateli con attenzione —continuava a ripetere l’ufficiale. —Sono estremamente pericolosi.

— È quello che vogliamo —gli assicurai.

Lo Tsinh se ne andò non appena gli fu possibile.

Ci mettemmo subito al lavoro. In ogni botola versavamo prima il contenuto di un fusto, poi il liquido ipergolico e subito dopo ce la filavamo, mentre un torrente di fiamme si abbatteva sugli Aracnidi urlanti a uno a uno, ripulimmo tutti i tunnel, che percorrevamo non appena le fiamme si erano estinte, circondati da un fumo così denso e untuoso da costringerci a sigillare le visiere e mettere in funzione i sistemi autonomi montati all’interno delle tute.

Scendemmo così, livello dopo livello, tra la fuliggine e centinaia di cadaveri carbonizzati di ragni. Quando scivolavamo loro accanto, la loro carne si sbriciolava in piccoli frammenti, e, a dispetto delle visiere sigillate, un fetore nauseante ci aggrediva le narici. Quella non era una battaglia, pensai; era una carneficina. Gli Aracnidi non avevano alcuna difesa contro il fuoco liquido. Il calore che sprigionava era così intenso da fondere le pareti delle gallerie trasformandole in una superficie scivolosa, vitrea.

Ma non avevamo ancora finito.

Avanzammo fino a raggiungere il cuore del labirinto di gallerie, un’ampia caverna vicina al nucleo stesso dell’asteroide, e abbastanza alta da permetterci di stare in piedi. In essa convergevano cinque dei tunnel principali e i torrenti di fuoco che si erano riversati in essa l’avevano trasformata in un inferno. Pareti, pavimento e volta erano anneriti e distinsi i resti carbonizzati di scatole, e consolle e pezzi di plastica liquefatta. Ma neppure un cadavere.