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Che cosa potevo risponderle? Mentre la guardavo, Frede entrò a letto e scostò il lenzuolo.

— Be’, quantomeno conosco i miei diritti. Sarò pure carne da macello, ma i miei diritti li conosco. Quindi porta qui quel tuo bel culetto e fa’ il tuo dovere.

Mi costrinsi a sorridere. —Sì… Sissignore.

L’indomani, la tensione in sala-comandi era tanto forte da essere quasi palpabile. Rallentammo un’ultima volta e Frede usò quel breve lasso di tempo per fotografare i tracciati stellari. Una volta compiuto nuovamente il salto nell’iperspazio, verificò la nostra posizione, corresse leggermente la rotta e infine annunciò con una voce stridula: —Prossima fermata, sistema di Zeta!

Nessuno degli altri parlò, ma notai che si irrigidivano ed evitavano il mio sguardo.

Ordinai che le capsule fossero sganciate a distanza di quattro ore l’una dall’altra per le ventiquattro successive. Di lì a trenta ore, avremmo rallentato fino a raggiungere la velocità relativistica ai margini del sistema di Zeta. Forse ci avrebbero accolti come ambasciatori di pace, o forse ci avrebbero fatti esplodere in pochi nanosecondi.

Furono trenta ore di tensione. L’Egemonia poteva dedurre la nostra postazione analizzando il percorso delle capsule e quindi concentrare tutte le difese nel settore in cui avremmo fatto la nostra comparsa. Ciò che invece non avrebbero potuto fare era inviarci un messaggio. Avrei dato chissà che cosa per conoscere le loro intenzioni. L’attesa era logorante.

— Velocità della luce in un minuto —annunciò il computer.

— C’è ancora tempo per tornare indietro, signore —disse Emon, l’ufficiale addetto agli armamenti. Mi voltai a fulminarlo con gli occhi e vidi che stava sorridendo. Scherzava, o perlomeno ci provava.

— Quarantacinque secondi.

— Chissà che effetto fa diventare una nuvola di plasma —borbottò Magro a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti.

— Tranquillizzante —rispose Frede.

— Un’esplosione della mente.

— Facciamo un’esplosione e basta.

— Trenta secondi.

— Nel caso non lo sapeste —dissi —è stato un piacere lavorare con voi.

— Lo sappiamo, signore!

— Un soldato lo capisce sempre, quando il suo comandante si diverte.

— Bisogna esserci nati, signore.

Mi voltai verso Frede e intercettai il suo sguardo. Non una parola. Non un sorriso. Ma ci comprendevamo.

— Velocità della luce —annunciò il computer. Tutti gli schermi si accesero a rivelare un cielo pieno di stelle luminose. E di navi dell’Egemonia.

“Alla nave della suprema alleanza: entrate in un’orbita circolare a cinquanta unità astronomiche dalla stella Zeta e restate in attesa dell’ispezione.”

Non avrebbero aperto il fuoco.

— Seguiremo le istruzioni —risposi.

Furono dei guerrieri Skorpis a ispezionare la nave e disinnescare i sistemi difensivi. Quindi requisirono le armi leggere. Fui io stesso ad accompagnare la squadra. Setacciarono l’Apollo in cerca di armi nascoste, ma senza fare danni.

— Aspetterete a bordo nuovi ordini —mi disse il capo della squadra al momento di congedarsi.

Eravamo in piedi davanti al portello principale. Lo Skorpis mi sovrastava di almeno venti centimetri e aveva le spalle tanto larghe che per uscire avrebbe dovuto mettersi di lato. Sperai che si ricordasse di chinarsi, altrimenti avrebbe battuto il capo contro l’intelaiatura.

— Siamo militari della Suprema Alleanza in missione diplomatica —gli ricordai. —Siamo disposti ad accettare istruzioni dai suoi superiori, non ordini.

Le sue labbra si curvarono in una parvenza di sorriso. —Istruzioni, allora —si corresse. Si volse e uscì. Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo.

— Cominciavo a pensare che ci avrebbero requisito anche i coltellini per il burro —commentò Jerron quando tornai in sala-comandi.

— Senza pistola mi sento nudo —si lamentò Emon.

— Siamo qui per parlare, non per combattere —gli rammentai.

— Sissignore, lo so, ma mi sento nudo ugualmente.

Aspettammo per due giorni a bordo dell’Apollo in orbita ai margini del sistema di Zeta. Prime, il pianeta-capitale, era molto più vicino a Zeta, ma noi eravamo confinati nelle tenebre dello spazio e il nostro compagno più prossimo era un gigante gassoso grande come quello del sistema di Jilbert.

Mi sarebbe piaciuto sapere se gli Antichi vivevano anche lì, ma quando cercai di raggiungerli con il pensiero, non ebbi in risposta che il silenzio.

Non avendo altro da fare, chiesi al computer i dati relativi ai giganteschi mondi gassosi di Zeta, e su nessuno erano state riscontrate tracce di vita. Ma sul più grande, quello più vicino alla stella, c’era un oceano. Sugli altri la temperatura era troppo bassa perché l’acqua mantenesse lo stato liquido, a dispetto della forte pressione dei campi di gravità.

Mi concentrai allora su Prime, per documentarmi quanto più possibile su quel mondo grigio, cupo e battuto dalla pioggia.

Poi arrivò un messaggio: VISITE IN ARRIVO. Ordinai all’equipaggio di mettersi in ghingheri e di accogliere gli Skorpis con un certo brio. Si lamentarono a gran voce, ormai dimentichi dei passati timori, ma obbedirono.

— Cercare di fare buona impressione sugli Skorpis è come tentare di addestrare un gatto al riporto —brontolò un soldato.

Ma la squadra che salì a bordo dell’Apollo era composta da umani. Due uomini armati e una donna con una fascia rossa sulla tunica.

— Sono Nella, del corpo diplomatico dell’Egemonia. Ho ricevuto ordine dai miei superiori di scortare il vostro rappresentante a Prime.

Mi feci avanti. Per un istante restammo a guardarci in silenzio. Nella era piccola, sottile e molto giovane. Forse i suoi superiori, sospettando qualche trappola, avevano mandato lei, la più giovane del corpo diplomatico e quindi la più sacrificabile.

Solo quando mi accorsi dell’interesse con cui la guardava Frede, mi resi conto che era anche molto carina.

— Sarà un piacere scortarti fino alla capitale —disse Nella con un sorriso radioso.

Mi voltai verso Frede: —Tenente, lei assumerà il comando in mia assenza.

— Sissignore —rispose lei scattando sull’attenti. Un po’ sorpreso da tanta formalità, ricambiai il saluto. —Abbia cura della nave —aggiunsi. —E di sé.

Il viso come una maschera di pietra, Frede ripeté: —Sissignore.

La città capitale di Prime fu una sorpresa per me. Molti edifici erano effettivamente costruiti in pietra grigia, ma gli altri dati fornitimi dal computer si rivelarono menzogneri. O, quantomeno, distorcevano la realtà.

Il cielo era attraversato da nuvole che un caldo vento di mare stava spazzando via, liberando ampi squarci di cielo azzurro. I viali brulicavano di gente che passeggiava tranquillamente, sostando davanti alle vetrine sfavillanti di luci e traboccanti di merci provenienti da centinaia di mondi.

In giro c’erano parecchi Skorpis, ma nessuno in tenuta da combattimento, che avevano tutta l’aria di essere in licenza. Vedemmo anche molti altri alieni, alcuni con indosso le tute per proteggersi da un ambiente a loro ostile.

Nel complesso, la città appariva allegra, brulicante di vita e normalmente impegnata nelle attività quotidiane. I suoi abitanti facevano acquisti, trovavano l’amore, andavano a cena fuori e lavoravano… in una parola, vivevano. Niente a che vedere con la tetra raffigurazione offerta dai computer della Suprema Alleanza. In un primo momento il contrasto mi choccò; poi realizzai che la città non sembrava minimamente toccata dalla guerra. Se quella gente sapeva che i loro soldati e alleati combattevano e morivano per loro, non lo davano a vedere. Pochi chilometri sopra alle loro teste orbitavano incrociatori da guerra e stazioni mobili pronti a ridurre in atomi un invasore, ma per quelle strade la vita scorreva solare e senza affanni.