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Quando avrebbe finito di scorrere, il sangue? Il Radioso si vantava di aver creato la razza umana perché combattesse per lui. Davvero non c’era modo di vincere l’aggressività che aveva instillato in noi? Di imparare a vivere in pace?

“Sentimenti che ti fanno onore, amico Orion.” La voce degli Antichi mi echeggiò nella mente.

Ero seduto nella cabina-comandi dell’Apollo, ma i miei occhi vedevano le profondità dell’oceano che era la loro casa. Ed ero tra loro, nuotavo tra loro, caldo e sicuro nella capsula di energia che avevano preparato per me.

— I miei sentimenti non basteranno a risolvere il problema che abbiamo di fronte —replicai.

— Il problema che “voi” avete di fronte, Orion, non noi.

— Non ci aiuterete, dunque?

Percepii un leggero fremito di disappunto tra loro. —Tocca a voi risolvere i vostri problemi, Orion. Altrimenti non saranno risolti, ma solo rinviati.

— Eppure, minacciate di annientare chiunque tenterà di usare il distruttore di stelle.

Un sospiro paziente. —Il nostro codice etico ci impone di lasciare ampio spazio alle razze più giovani, perché siano artefici del loro destino. Ma lo stesso codice non può permettere la distruzione delle stelle. Una razza intenzionata a usare un tale potere per fini distruttivi rappresenta un pericolo non solo per se stessa, ma per l’intero continuum.

— Quindi anche per voi.

Agitarono i loro numerosi tentacoli, spirali di colore si rincorsero nell’acqua al ritmo del loro respiro, mentre i loro corpi si muovevano come danzando.

— Sì —ammisero alla fine. —Una simile razza rappresenta un pericolo per noi, come per tutti gli esseri del continuum.

— Il vostro codice etico vi consente di aiutarmi a prevenire una simile catastrofe?

Ci fu un lungo silenzio. Gli Antichi fluttuavano nell’acqua, inviandosi l’un l’altro lampi di colore.

— Orion, è evidente che ti stai dibattendo nella morsa di un equivoco. A quanto pare, sei convinto che, eliminando uno della tua razza, colui che chiami Aton o il Radioso, tutto sarà appianato.

— Non è così?

— No, temiamo di no.

— Ma…

— La vostra è una razza molto violenta, Orion. La violenza fa parte della vostra natura. Anche tu, che lotti per sconfiggere questa sanguinaria eredità, pensi di risolvere i tuoi problemi uccidendo ancora.

— Ma Aton dev’essere fermato! Lui sta annientando gli altri Creatori. Cerca…

— Lo sappiamo. L’abbiamo letto nella tua mente. Ma supponiamo che tu riesca a uccidere Aton… credi che questo farà cessare la guerra? Centinaia di miliardi di umani sono in lotta fra di loro, e impiegano armi sempre più pericolose. Credi che la morte di uno basterà a tacitare la bramosia di morte insita in voi?

Dovevo pensarci su. Gli Antichi rispettarono il mio silenzio.

— Il primo passo sta nel mettere fine alla guerra —dissi alla fine, soppesando le parole. —Non basterà a estirpare il seme della violenza dalla psiche umana, ma farà cessare questa carneficina. Poi, forse, potremmo imparare a vivere in pace.

— Lo credi possibile?

— Vedete un’altra strada, migliore? —ribattei.

— No —risposero. —A essere sinceri, no.

— Allora, aiutatemi a raggiungere Loris.

— Troverai gli Skorpis ad aspettarti. Da loro non possiamo proteggerti.

— Potete almeno trasportare la criocapsula che ho a bordo nel Campidoglio del pianeta?

Ma dopo che si furono consultati, il verdetto fu: —Questo è un compito che devi eseguire tu stesso, Orion.

— Neppure questo farete per me? Nel nome della pace?

— Dovete conquistare da soli la pace. È un compito che spetta esclusivamente a voi.

Non avrei avuto alcun aiuto dagli Antichi.

— Il tuo arrivo nel sistema di Giotto scatenerà una violenta battaglia —mi avvertirono.

— L’ultima —assentii, rassegnato.

— Auguriamocelo.

Ero pieno d’amarezza —Grazie —dissi…

— Addio, Orion —mi salutarono. —Addio per sempre.

Prima che potessi chiedere che cosa avessero inteso con quella formula di commiato, mi ritrovai a bordo dell’Apollo. Accanto a me, Frede mi guardava perplessa.

— Non vuoi mangiare?

Solo allora notai il vassoio di cibo che avevo davanti.

— No, grazie —borbottai. —Non ho fame.

Come potevo mangiare quando sospettavo che gli Antichi mi avessero detto addio perché sapevano che andavo a morire?

Quando lasciai la cabina per andare a riposare, sognai l’antica Bisanzio, la Nuova Roma dalla triplice cinta di mura che per mille anni, dopo che l’oscurità che era calata sull’Europa occidentale, era rimasta in piedi ad affrontare le orde barbariche.

Ero un soldato, un ufficiale che tornava in città dopo una lunga e faticosa campagna militare contro i predatori Selgiuchidi, venuti dal cuore dell’Asia settentrionale per conquistare le antiche province della Cilicia, della Cappadocia e persino dell’Anatolia. Nobili città, come Antiochia, Pergamo ed Efeso ora erano in mano ai musulmani.

I miei soldati avevano combattuto per mesi, costretti a ritirarsi di continuo davanti ai feroci cavalieri delle steppe, e morendo in gran numero mentre l’ondata barbara ci sospingeva verso il Bosforo. Col cuore gonfio, vedevo villaggi, paesi, intere città messe a ferro e fuoco dagli invasori; chiese e persino grandi cattedrali trasformate in moschee. La nostra ritirata fu segnata da colonne di fumo nero, pire funerarie per il nostro Impero, che si levavano verso il sole come indici accusatori.

Alla fine, li fermammo. Alle nostre spalle, restava solo la sottile striscia di mare che separa l’Asia dall’Europa. Non molto dell’antico impero era stato risparmiato, ma la potente Bisanzio era ancora libera. Il prezzo fu migliaia di ottimi soldati; della mia coorte, soltanto una manciata era ancora in grado di combattere, e tra questi molti erano feriti. Ma potevamo dire a noi stessi e a chiunque avesse voluto ascoltare che avevamo dato molto più di quanto avessimo ricevuto. I Selgiuchidi non erano meno esausti di noi, e le loro cataste di morti più alte delle nostre.

La battaglia era cessata, almeno per il momento, e io rientravo nella potente città. Con il cuore a pezzi e zoppicante per una ferita di freccia a una gamba.

A cavallo varcai i tre cancelli, le mie poche cose legate alla sella. Le guardie non prestarono attenzione a me… solo un soldato che tornava… impegnati a trattare con un mercante arrivato con una lunga carovana di muli carichi di merci. Pretendevano di essere pagati, e generosamente, per lasciarlo entrare.

Attraverso le strade tortuose della città vecchia, cavalcai lentamente, godendomi la vista, i suoni, gli odori. I venditori ambulanti decantavano la loro mercanzia. I negozianti parlavano del tempo o delle mode più recenti con i clienti. Uomini e donne passeggiavano lungo le vie principali, o sedevano nei caffè delle piazze. L’aroma dell’agnello arrosto, delle cipolle e del vino speziato mi dava alla testa, dopo mesi in cui mi ero nutrito di carne secca di capra o di cose peggiori.

Nella piazza del mercato, oltre i tetti bassi delle case, vidi la splendida cupola di Santa Sofia. Spronai il mio cavallo stanco in direzione della cattedrale. Se dovevo pregare per la mia salvezza, perché non farlo nel più imponente monumento della Cristianità?

Una parte della mia mente si chiedeva se fosse un sogno o la vita reale. Vivevo davvero in quell’era del mondo, oppure ero altrove, in un altro luogo e in un altro tempo, e dormivo? Ma che importanza aveva? Ero comunque fortunato a essere vivo, e dovevo a Dio e ai suoi Santi una preghiera di ringraziamento. Ed eccomi finalmente nella piazza di ciottoli antistante la cattedrale.