— Ma sergente —protestò uno di loro —è come avere il fuoco addosso!
— Ho avuto quattro medaglie per le ferite riportate in diverse azioni —disse un altro —ma questo prurito mi sta facendo impazzire.
A ogni passo, mentre procedevamo nella foresta buia con nugoli di insetti che ronzavano sopra le nostre teste, i soldati feriti gridavano e imploravano che si ponesse fine alle loro sofferenze.
Ci imbattemmo nella squadra comandata dal tenente Frede, l’ufficiale medico dell’unità. I suoi feriti non stavano meglio dei miei.
— Non posso visitarli mentre marciamo, signore —disse. —Se ci fermassimo per dieci minuti? Avrei anche bisogno di una lampada.
Il nemico si trovava dall’altra parte del pianeta, o almeno così speravo. Ma che sarebbe accaduto se fossimo incappati in altre brutte sorprese? Per qualche istante scivolai tra gli alberi in silenzio, soppesando i pro e i contro. Frede era al mio fianco.
— D’accordo —cedetti alla fine. —Dieci minuti. Cerchi di schermare la luce.
Le ero accanto, quando esaminò il primo ferito, una donna con un taglio nell’avambraccio, conseguenza all’aggressione delle creature carnivore.
La ferita pullulava di formiche rosse. Frede indietreggiò sorpresa, mentre gli insetti, probabilmente infastiditi dalla luce, si nascondevano nella carne martoriata della poveretta. Lei gridò, non so se per il dolore o la paura.
Mi tolsi la tuta; le formiche mi stavano letteralmente divorando la gamba. Una delle conseguenze dell’inibizione dei segnali di dolore è l’incapacità da parte del corpo di avvertire il cervello del pericolo.
Frede deglutì a fatica, quindi si mise all’opera con decisione. Per allontanare le formiche dovette ricorrere ad astringenti, che strappavano ai soldati grida disperate. Io restai in silenzio quando arrivò il mio turno, e pur nelle tenebre di quella notte maledetta, colsi gli sguardi ammirati dei miei compagni di avventura.
Ci volle solo qualcosa in più dei dieci minuti stabiliti. Una volta superato lo choc, Frede si mostrò rapida ed efficiente. Il suo viso era serio, quando ci rialzammo di nuovo da terra: —Spero che le formiche non abbiano deposto uova nelle ferite —mormorò.
Una prospettiva allettante.
— Dovrò visitarvi tutti, una volta raggiunto il campo base —mi informò ancora.
Ci affrettammo verso il luogo dell’appuntamento. Alberi giganteschi si ergevano attorno a noi nel buio, come colonne di un’enorme cattedrale, ma non c’era traccia di sottobosco. Solo di tanto in tanto, si intravedeva un cespuglio o qualche pianta grassa sconosciuta. Il fitto baldacchino di fronde bloccava la vista del sole e la scarsità di luce, impediva all’erba di crescere.
Ci muovevamo tra i tronchi come due squadre di fantasmi che vagano in una notte di prodigi. Fantasmi che emettevano lamenti. Eravamo circondati da fitte nubi di insetti, ma, liberati dal tormento delle formiche, i feriti avevano smesso di gemere. Di tanto in tanto, i nostri zaini urtavano contro gli alberi o restavano incastrati tra due fusti troppo vicini, e qualcuno era costretto a tornare indietro per recuperarli. Dopo circa due ore, raggiungemmo finalmente il punto convenuto.
Una delle squadre era già lì e la quarta arrivò subito dopo di noi. Dopo che Frede ebbe visitato gli altri feriti, mi appartai con i tenenti, lasciando ai soldati il compito di accertarsi che neppure una cassa di materiale fosse andata perduta. Altri cominciarono a montare le tende.
I tre ufficiali si rassomigliavano in modo impressionante. Della stessa altezza… mi arrivavano al mento… avevano volti larghi, con gli zigomi alti e occhi azzurro chiaro. Alla luce fioca della lampada da campo, notai che avevano tutti il naso spruzzato di efelidi. L’esercito doveva averli clonati dallo stesso stock genetico.
Il tenente Frede era evidentemente una donna equilibrata che non si spaventava facilmente, ma aveva l’aria preoccupata.
— Due dei miei sono morti —annunciò, mentre si sfilava il casco. Aveva gli stessi capelli corti color sabbia degli altri due. —Ho potuto soltanto dare un’occhiata ai feriti durante la marcia, ma non mi è parso che le ferite inferte da quei mostri fossero tanto gravi da risultare fatali.
— Che cosa li ha uccisi, allora? —domandai.
Lei cercò di allontanare gli insetti con un cenno secco della mano. Quei maledetti non ci davano tregua.
— Credo che i mostri della palude abbiano iniettato una qualche tossina nelle ferite —spiegò Frede, grattandosi all’interno del colletto.
— Veleno?
Lei annuì. —Veleno. Il che significa che anche gli altri quattro feriti potrebbero essere stati avvelenati.
— C’è qualcosa…
Non mi lasciò neppure finire. —Sembrano più vittime di un’intossicazione che feriti, e peggiorano di minuto in minuto. Forse anche quelle maledette formiche sono velenose.
Ci pensai su un momento.
— Ho notato, signore —riprese Frede —che lei è stato ferito alla gamba. Come si sente?
— Bene —risposi, poi aggiunsi: —Il mio sistema immunitario produce anticorpi molto rapidamente.
Un altro cenno di assenso. —Allora forse potrei usare un campione del suo sangue per iniettare anticorpi ai feriti.
— Naturalmente. Buona idea!
Così, mentre gli uomini montavano il ricetrasmettitore e l’alba illuminava flebilmente il fitto viluppo di rami sopra di noi, io me ne stavo disteso su un lettino nella tenda del dottor Frede.
— Grazie, signore —mi disse, sollevando la siringa piena di sangue rosso vivo.
Mi misi a sedere e abbassai la manica. —Se gliene serve ancora, me lo faccia sapere.
— Questo dovrebbe essere sufficiente, signore.
Mi alzai. La forma sferica della tenda mi consentiva a malapena di stare al centro senza toccare il soffitto con la testa. Quattro lettini, su cui giacevano i feriti ormai addormentati, occupavano la maggior parte dello spazio. Il tavolo per le visite e l’altra attrezzatura medica erano sistemati all’esterno.
Gli occhi azzurri di Frede mi scrutavano con attenzione. —Lei non è uno di noi, vero?
— Uno di chi?
— Dei corpi ufficiali regolari. Lei proviene da un diverso stock genetico. È più alto, e con gli occhi e i capelli più scuri. Anche il colore è più scuro, quasi olivastro. È un ufficiale volontario?
Abbozzai un sorriso. —No, Frede, non sono un volontario.
Lei ridacchiò. —Allora qualcuno al quartier generale si starà preoccupando parecchio della nostra vita sessuale.
— Che cosa?
— Secondo il ruolino di servizio, lei e io formeremo una coppia per tutta la durata di questa missione. Per me sarà la prima volta in cui mi troverò con qualcuno che non appartiene al mio stesso gruppo clonale.
Dovevo avere un’espressione da perfetto idiota. Nel rapporto o nei miei ricordi non c’era traccia di doveri sessuali.
Il sorriso svanì sulle sue labbra. —Proprio come pensavo —disse seria. —Lei non è affatto un ufficiale dell’esercito, vero?
Mi sedetti sul bordo del lettino. —Sono stato scelto per guidare questa missione da… —Cosa potevo dire? Un Dio? Uno dei Creatori? Un discendente terribilmente evoluto della razza umana che ci considerava semplici giocattoli tra le sue mani, schiavi per i suoi capricci? —…dalle alte sfere —conclusi non senza imbarazzo.
— Non importa —tagliò corto lei. —La maggior parte di noi ha già capito che questa missione è frutto di una fottuta decisione presa nelle alte sfere. Perché altrimenti, avrebbero sollevato dall’incarico il nostro capitano?
— Era lui il suo compagno fisso?
Frede sgranò gli occhi. —Lei non sa niente dei militari, vero? I soldati non hanno compagni fissi. È l’esercito che decide con chi farai coppia, così come decide ogni cosa nella tua vita.