Cominciavo a capire. Quei soldati venivano creati dall’esercito per prestare servizio nell’esercito. Non conoscevano altra vita. Niente genitori, niente famiglie. Solo la vita militare.
— Mi chiedo perché —scherzai ad alta voce —l’esercito non abbia proibito anche la vita sessuale. O, magari, creato i suoi soldati asessuati.
Frede sbuffò. —Potrebbe anche chiedersi perché non usino dei robot invece di esseri umani clonati.
— Già, perché no?
— Perché noi costiamo di meno, ecco perché! E siamo anche migliori. Perché proviamo emozioni. Ha mai visto un robot caricare quando la situazione è disperata? Certo, a volte ci spaventiamo, talvolta scappiamo… ma più spesso restiamo e combattiamo per uccidere il nemico, anche se questo significa andare incontro a morte certa.
Riflettei sulle sue parole. Poi dissi: —Dunque l’esercito ha fatto del sesso una sorta di ricompensa.
Per un attimo, ebbi l’impressione che stesse per schiaffeggiarmi. I suoi occhi mandavano lampi di collera. —Ma da dove viene? L’esercito ci permette di fare sesso perché, senza, non combatteremmo. L’atto sessuale è strettamente connesso con l’aggressività e il senso di protezione, negli esseri umani. Non lo sapeva?
— Credo di no —ammisi.
— Dannazione! Spero che in fatto di tecniche di combattimento sia più informato!
— So combattere —risposi, nel tentativo di placarla.
— Davvero?
Annuii, poi mi alzai e uscii dalla tenda, lasciandola sola. Il suo volto esprimeva più turbamento che collera.
Io sapevo combattere. Dalle guerre dell’Era Glaciale contro i Neanderthaliani, fino alla sconfitta delle orde di Mongoli. Dalla guerra contro i dinosauri e i rettili intelligenti di Set, fino agli assedi di Troia e di Gerico.
Sapevo combattere. Ma che cosa sapevo di come si comandano cento soldati in una guerra che riguarda l’intera galassia, un evento cruciale nello spazio-tempo che deciderà l’esistenza del continuum?
Decisi di scoprirlo.
La maggior parte degli uomini erano occupati ad assemblare il ricetrasmettitore che avrebbe costituito il fulcro della nostra base su Lunga. Dal numero di moduli che avevano già estratto dall’imballaggio, mi ero reso conto che sarebbe stato necessario abbattere alcuni alberi per far posto al materiale, e una squadra era già al lavoro all’altro lato del campo base.
Un’altra squadra stava installando i laser antimissile, l’unica arma pesante che avevamo in dotazione.
— Premuroso da parte dei nostri superiori dotarci di questa attrezzatura —ironizzò una donna, mentre collegava i cavi del generatore al computer che azionava i laser.
— Certo! —concordò l’uomo che lavorava con lei. —Non vogliono che il loro prezioso ricetrasmettitore salti in aria e si dissolva in una nuvola di polvere.
— I raggi laser proteggeranno anche noi, lo sai.
— Sicuro. Finché resteremo vicini al ricetrasmettitore saremo al sicuro dalle testate nucleari.
— È già qualcosa, no?
— I nostri superiori ci vogliono bene. Stanno in piedi nottate intere a preoccuparsi per la nostra salute e la nostra sicurezza.
La donna scoppiò a ridere.
Altri militari stavano montando le tende di forma sferica e sistemando le casse di viveri. Tutti si erano tolti le pesanti tute ora che l’aria del mattino era diventata calda, e lavoravano con indosso magliette e pantaloni macchiati di sudore. Gli insetti, che ci avevano tormentato durante la notte, erano scomparsi non appena il chiarore dell’alba aveva fatto capolino tra la fitta vegetazione. Al campo, l’attività era intensa; al brusio delle voci umane faceva da sfondo il canto degli uccelli. Poi, all’improvviso, un boato: un albero gigantesco era caduto a terra. Per qualche istante, tutto sembrò fermarsi. Poi gli uccelli ripresero a cantare e gli uomini tornarono al lavoro.
Mi diressi verso il sergente Manfred, l’addetto alla sicurezza. Indossava la tuta mimetica e il casco, e stava parlando via radio con i soldati di guardia nella foresta.
— Novità? —chiesi. Io stesso indossavo solo una tuta da lavoro, ma avevo in testa il casco e la pistola assicurata intorno ai fianchi da una cintura. Ripensai a quando portavo un pugnale legato alla coscia, nascosto sotto i pantaloni, e sentii la mancanza di quella rassicurante pressione sulla carne.
— C’è qualcosa più grande di un lemure che si muove ai limiti del raggio del nostro sensore —rispose Manfred con voce bassa e dura.
— L’Intelligence sostiene che non esistono creature più grandi di un lemure su questo pianeta.
— Quei mostri nella palude… erano enormi.
— Ma qui, sul terreno asciutto?
— Potrebbero essere esploratori nemici —replicò lui con voce atona.
— Forse dovremmo scavare delle trincee in vista di un eventuale attacco.
— L’Intelligence sa quanti di questi Skorpis sono sul pianeta?
— Sostengono che si tratta solo di una piccola unità, messa a protezione della squadra che sta costruendo una base.
Manfred grugnì.
Ero d’accordo con lui. In quella missione l’Intelligence non stava facendo una gran bella figura. —Farò scavare le trincee non appena il ricetrasmettitore intercetterà armi pesanti. Nel frattempo…
L’esplosione mi catapultò decine di metri più in là. Una montagna di polvere e detriti mi travolse e un fumo acre oscurò ogni cosa intorno. Sentii altre esplosioni e il crepitio di armi laser.
Manfred strisciò verso di me. —Tutto bene, signore?
— Sì! —Avevo la mano insanguinata, ma non era niente di grave. —Faccia tornare i suoi uomini alla base.
— D’accordo!
Restando carponi, arrancai in direzione della boscaglia, mentre contemporaneamente estraevo la pistola dalla fondina. Non c’era neanche un cespuglio dietro al quale trovare riparo, ma gli alberi potevano nascondere alla vista intere divisioni di uomini. Incollato al terreno, indietreggiai, nella speranza di trovare una buca che mi garantisse un minimo di protezione.
Un raggio laser mi sibilò accanto, rosso come il sangue. Sparai a mia volta, prima di rendermi conto che avrei dovuto disattivare il dispositivo che rendeva visibile il raggio. La luce rossa illuminava il bersaglio, ma al tempo stesso tradiva la tua posizione. L’avevo letto su qualche vecchio manuale.
Come temuto, la risposta fu una sventagliata di raggi. Le mie capacità sensoriali, intanto, si erano acuite, e ora sembrava che tutto intorno a me si svolgesse con lentezza esasperante. Sfortunatamente, era una reazione di scarsa utilità contro quel tipo di armi. Uno dei raggi colpì il terreno a pochi centimetri dal mio viso; gli occhi mi bruciavano e in bocca avevo un sapore acre. Un secondo mi raggiunse alla spalla. Mi schiacciai ancor di più a terra, nella speranza di rendermi invisibile.
Tre granate disegnarono un arco nel cielo, dirette verso di me. Grazie alle mie capacità sensoriali, le vidi volteggiare pigramente nell’aria, come palloncini. Presi la mira e le feci esplodere, riducendole in polvere che cadde lentamente sul terreno. Poi un’altra granata emerse con un sibilo dalla boscaglia; ebbi appena il tempo di colpirla.
Indietreggiai ancora un poco, spiando attraverso gli alberi alla ricerca di qualche traccia del nemico. Nulla. Erano maledettamente in gamba. Ancora qualche esplosione sorda alle mie spalle, poi il silenzio. Passarono i minuti. Gli uccelli ripresero a cinguettare e gli insetti a ronzare.
Indugiai ancora, il ventre contro il terreno, nella speranza di vedere qualcosa, ma tutto era quieto. Niente. Premetti il pulsante che riattivava il raggio visibile, quindi sparai all’impazzata in direzione del punto da cui erano state lanciate le granate. Non ebbi risposta. Puntai allora la pistola contro un grosso cespuglio e continuai a sparare finché non esplose in una fiammata. E ancora nulla; non un movimento, non un suono.