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Alle quindici e trentacinque l'intercom ronzò di nuovo.

— Chiamata da Nairobi, Africa, signor Walton.

— Pronto.

McLeod apparve sullo schermo.

— Siamo qui — disse. — Arrivati sani e salvi mezzo microsecondo fa, e tutto va bene.

— E lo straniero?

— Lo abbiamo chiuso in una cabina speciale, costruita appositamente per lui. Sa, respira idrogeno e ammoniaca. È molto ansioso di vederla. Quando potrà venire?

Walton rifletté per un momento.

— Immagino che non ci sia alcun modo di trasportarlo qui, vero?

— Non lo consiglio. I dirnani non amano molto viaggiare in un campo gravitazionale così basso. La cosa fa loro rivoltare lo stomaco, o qualcosa del genere. Crede di non riuscire a venire qui?

— Vengo subito. Tra quanto posso partire?

— Oh… mezz'ora? — suggerì McLeod.

— Arrivo — disse Walton.

La grande metropoli di Nairobi, capitale della Repubblica del Kenya, si stendeva ai piedi dei Monti Kihuyu, e lo stupendo Kilimangiaro torreggiava sopra di essa. Quattro milioni di persone abitavano Nairobi, la più bella delle molte bellissime città delle costa occidentale dell'Africa. Le repubbliche dell'Africa Nera avevano saputo costruire presto e bene, dopo avere ottenuto l'indipendenza. Come colonie, nessuno aveva capito le possibilità di quei negri, che avevano saputo superare le più rosee aspettative ponendosi all'avanguardia nel mondo sotto molti aspetti.

La città era calma quando il jet speciale di Walton decelerò per l'atterraggio nel grande aeroporto di Nairobi. Walton era partito alle 15 e 47, tempo di New York; il viaggio transatlantico aveva occupato due ore e alcuni minuti, e c'era una differenza di otto ore tra il fuso orario del Kenia e quello di New York. Adesso a Nairobi erano le 3 e 13; la pioggia del mattino stava cadendo in perfetto orario, quando il jet si fermò.

McLeod era ad aspettarlo.

— L'astronave è sulle colline, a cinque miglia dalla città. C'è un elicottero che l'aspetta.

Pochi istanti dopo essere sceso dal jet, Walton fu fatto salire a bordo dell'eli. I rotori ronzarono; l'eli si alzò perpendicolarmente finché non fu al di sopra del livello dei regolatori di nuvole, a quattromila metri; allora accese i suoi jet e partì verso le montagne.

Non pioveva, quando atterrarono; secondo McLeod, la pioggia notturna era prevista per le due, in quel settore, e i regolatori di nuvole erano già stati là da tempo, muovendosi poi per "seminare" le nuvole e portare la pioggia nella città vera e propria. Un'auto li aspettava a destinazione. McLeod si mise al volante, e sorprendentemente si dimostrò capace di domare non solo le astronavi interstellari, ma anche i veicoli di superficie terrestri.

— Ecco la nostra astronave — disse con orgoglio, puntando il dito.

Walton provò un improvviso tuffo al cuore.

L'astronave si ergeva sulla coda, al centro di un'ampia distesa di cemento annerito dai jet. Era alta almeno centocinquanta metri, un torreggiante ago pallido che scintillava nella luce della luna. Gli alettoni descrivevano archi eleganti nella notte. Degli uomini si muovevano rapidamente nella zona illuminata dai fari, intorno alla base, uomini intenti ai più svariati lavori.

McLeod si avvicinò all'astronave, e le girò intorno. La perfetta simmetria della parte frontale non era riprodotta dietro; dietro, infatti, una scaletta sottile saliva lungo il fianco dell'astronave, fino a un portello aperto, e accanto a essa un rozzo ascensore saliva seguendo lo stesso percorso.

McLeod fu accolto con deferenti saluti dagli uomini, quando scese dall'auto; Walton fu accolto solo da una serie di occhiate perplesse.

— Faremo meglio a prendere l'ascensore — disse McLeod. — Gli uomini stanno lavorando sulla scaletta.

Silenziosamente salirono a bordo dell'astronave. Entrarono dal portello aperto, e percorsero un breve corridoio. McLeod si fermò e schiacciò un pulsante che si trovava in un incavo della parete.

— Sono di ritorno — annunciò. — Dite a Thogran Klayrn che ho portato Walton. Sentite se verrà fuori a parlargli.

— Credevo che dovesse respirare un'atmosfera speciale — disse Walton. — Come fa a uscire?

— Hanno dei respiratori, delle maschere speciali. Di solito non amano usarle. — McLeod ascoltò nell'auricolare per un momento, poi annuì. Si rivolse a Walton e disse: — Lo straniero la incontrerà nella sala comune.

Walton ebbe appena il tempo di fortificarsi con un sorso di rum, quando un uomo dell'equipaggio apparve sull'ingresso della sala comune e dichiarò, in tono magniloquente e caricato: — Sua Eccellenza, Thogran Klayrn di Dirna.

Lo straniero entrò.

Walton aveva visto le fotografie, e così era parzialmente preparato. Ma solo parzialmente.

Le foto non gli avevano dato la minima idea delle dimensioni dello straniero. L'essere era alto due metri e mezzo, e aveva un aspetto davvero imponente. Doveva pesare alcuni quintali, ma era sorretto da due gambe spesse, alte non più di novanta centimetri. Aveva quattro braccia angolose, che sporgevano dal corpo in maniera bizzarra.

La testa era priva di collo, ed era coperta completamente dalla maschera trasparente. Una delle mani stringeva un congegno meccanico; Walton immaginò che dovesse trattarsi del traduttore automatico di cui aveva sentito parlare.

La pelle dello straniero era di un bel verde ramarro, e pareva cuoio. Un odore pungente pervase la stanza, un odore che pareva venire da un oggetto immerso per lungo tempo in un bagno di ammoniaca.

— Io sono Thogran Klayrn — disse una voce tonante. — Diplomasiarca di Dirna. Sono stato inviato a parlare con Roy Walton. È lei Roy Walton?

— Sono io. — La voce di Walton aveva un suono freddo e secco, lo sentì lo stesso Walton. Si rendeva conto di essere troppo teso. — Sono felice di conoscerla, Thogran Klayrn.

— Prego, si sieda. Io non siedo. Il mio corpo non è fatto per questo.

Walton sedette. Si sentiva a disagio, costretto com'era a piegare il collo per guardare lo straniero, ma non ci poteva fare nulla.

— Ha fatto un buon viaggio? — chiese Walton, disperatamente deciso a temporeggiare.

Un mezzo grugnito uscì dalla bocca di Thogran Klayrn.

— È stato proprio così. Ma io non indulgo in chiacchiere trascurabili. Abbiamo un problema, e un problema dobbiamo discutere.

— D'accordo. — Qualunque cosa fosse un diplomasiarca su Dirna, "non" si trattava di un tipico diplomatico. Walton fu sollevato, pensando che non sarebbe stato necessario passare ore e ore in convenevoli e formalità prima di affrontare il problema più importante.

— Un'astronave mandata dalla vostra gente — disse lo straniero — ha invaso il nostro sistema qualche tempo fa. Al comando era il suo colonnello McLeod, che sono giunto a conoscere bene assai. Qual era dunque lo scopo di essa astronave?

— Esplorare i pianeti dell'universo alla ricerca di un mondo sul quale i coloni della Terra potessero emigrare. Il nostro pianeta è molto affollato.

— Così mi è stato dato modo di conoscere. Voi avete scelto Labura… o, nella lingua vostra, Procione VIII… come vostra colonia. È questo il vero?

— Sì — disse Walton. — È un mondo perfetto per i nostri scopi. Ma il colonnello McLeod mi ha informato che voi fate delle obiezioni in questo senso, non essendo favorevoli alla nostra colonizzazione del pianeta.

— Così obiettiamo invero. — La voce del dirnano era fredda. — Voi siete una razza giovane e attiva. Non sappiamo quindi quale pericolo a noi possiate portare. Avere voi quali vicini nostri.