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Clifford Simak

Pescatore di stelle

I

Venne finalmente il tempo in cui l’Uomo fu costretto ad ammettere di essere escluso dallo spazio. Aveva cominciato a sospettarlo per la prima volta il giorno in cui vennero scoperte le fasce di radiazioni dure che cingevano la terra, e gli uomini della Minnesota University si servirono di palloni sonda per catturare protoni solari. Ma l’Uomo aveva sognato per tanto tempo che, anche di fronte a questa realtà, non poteva abbandonare il sogno senza fare almeno qualche tentativo.

Perciò andò avanti e tentò… e continuò a tentare, anche dopo che gli astronauti, nei primi viaggi verso i pianeti più vicini, erano morti per dimostrare che era impossibile. L’Uomo era troppo fragile per lo spazio. Moriva troppo facilmente. Moriva, durante le lunghe traversate, o delle radiazioni primarie scagliate dal Sole, o delle radiazioni secondarie generate dal metallo della sua nave.

Alla fine si rese conto che il suo sogno era irrealizzabile, e provò amarezza e delusione quando guardava le stelle, perché adesso le stelle erano molto più lontane da lui di quanto lo fossero state mai.

Dopo molti anni, dopo un gran battere alle porte del cielo, dopo cento milioni di sofferenze, l’Uomo finalmente rinunciò.

E fu un bene.

C’era un sistema migliore.

II

Shepherd Blaine sentì di essere in una specie di casa o, non esattamente in una casa, in una specie di abitazione. Perché c’era ordine, e un senso delle proporzioni e delle forme che non si riscontrava in natura, anche in una natura aliena, sul pianeta di una stella sconosciuta, lontanissima dalla Terra.

I suoi cingoli non lasciavano segni sul pavimento, come avevano lasciato segni, invece, sulle dune di sabbia che aveva attraversato per giungere a quella abitazione, se era un’abitazione. Il vento era soltanto un bisbiglio, in confronto all’ululare della tempesta del deserto, che lui aveva dovuto sopportare per ore ed ore.

Il pavimento era duro e liscio e di un vivace color azzurro, ed era facile, per lui, muoversi su quella superficie. Qua e là c’erano forme che potevano essere mobili o apparecchi o manufatti di qualche valore estetico, ed erano egualmente azzurri, e le loro forme non erano le forme casuali e incoerenti d’una superficie scolpita dal vento o dal sole o dalle intemperie, ma le linee nette e decise, fossero curve o diritte, degli oggetti funzionali.

Eppure le stelle splendevano ancora, e il sole lontano era là, per quanto fioco, e perciò il luogo in cui era capitato per caso non era certamente chiuso.

Blaine avanzò lentamente, con tutti i suoi sensori protesi alla massima capacità, e il senso di casa persistette; e poco dopo, vi fu anche il senso di vita.

Captò un lieve sentimento di eccitazione che crebbe dentro di lui. Perché non capitava spesso di trovare la vita. Era un’occasione memorabile, quando si trovava l’intelligenza. E qui, a giudicare dal liscio pavimento azzurrovivo, da quei manufatti, c’era l’intelligenza.

La sua andatura rallentò, i suoi cingoli frusciarono sul pavimento; i suoi sensori erano protesi, in piena attività, e il ronzio del nastro, che succhiava vista e suono e forma e odore, registrava temperatura e tempo e campi magnetici e tutti gli altri fenomeni che esistevano su quel pianeta.

In lontananza scorse una vita… la cosa che stava distesa inerte sul pavimento, come poteva starsene sdraiato un uomo pigro, senza far nulla, senza aspettarsi di far nulla: se ne stava lì distesa, e basta.

Blaine si avviò in quella direzione, mantenendo un’andatura molto lenta, ed i sensori raccolsero la conoscenza di quella vita oziosa, e i registratori la risucchiarono.

Era rosa: di un rosa eccitante e non disgustoso come poteva essere spesso il rosa, non un rosa dilavato, non un rosa atomico, ma un rosa molto grazioso, lo stesso color rosa che la bambina dei vicini poteva portare alla festa per il suo settimo compleanno.

Lo stava guardando, forse con gli occhi, ma non stava guardando. Era conscia della sua presenza, e non aveva paura.

Finalmente, lui la raggiunse. Arrivò a meno di due metri da quella vita, si fermò ed attese. Era una cosa piuttosto massiccia, alta circa quattro metri e mezzo, e stava distesa su di un’area che aveva sei metri o più di diametro. Torreggiava sopra la piccola macchia che era Blaine, ma non c’era in essa nulla di minaccioso. E neppure di amichevole. Non c’era nulla, per il momento. Era soltanto una massa vivente.

E quella era la parte più difficile, ricordò Blaine a se stesso. Questo era il momento in cui o ce la facevi o fallivi. La mossa che stava per fare avrebbe potuto stabilire lo schema per tutti i suoi futuri rapporti con la cosa che gli stava di fronte.

Perciò rimase perfettamente immobile, senza fare il minimo gesto. Ritirò i sensori, mantenendoli al minimo, e il nastro continuava appena appena a girare.

Ed era duro aspettare, perché il tempo stava quasi per esaurirsi: gliene rimaneva soltanto pochissimo.

Poi sentì lo svolazzare, captò dai sofisticati meccanismi elettronici della macchina che per il momento era il suo corpo: lo svolazzare dell’essere che se ne stava accovacciato, tutto roseo, sul pavimento… lo svolazzare di un pensiero formato solo parzialmente, l’inizio di una comunicazione, il primo passo per rompere il ghiaccio.

Blaine si tese, lottando contro l’esaltazione che lo invadeva. Perché era da sciocco provare un senso di esaltazione, adesso… Non vi era alcuna indicazione certa dell’esistenza di una facoltà telepatica. E tuttavia, quello svolazzare ne aveva proprio il sapore, certe connotazioni…

Continua, si disse, continua!

Aggrappati al tempo che ti rimane!

Ti rimangono soltanto trenta secondi!

Lo svolazzare si ripeté, più forte e più netto, questa volta, come se l’essere acquattato davanti a lui si fosse schiarito mentalmente la gola prima di parlare.

Capitava molto di rado di entrare in contatto con un essere telepatico. Altre facoltà, altre caratteristiche ed altre idiosincrasie che facevano sembrare una cosa ben misera la telepatia non erano affatto rare, ma soltanto di rado si rilevavano utili come la semplice, antiquata arte telepatica.

E l’essere parlò.

Ehi, amico, disse. Scambio la mia mente con la tua.

La mente di Blaine urlò senza suono, in preda ad una sorpresa esasperata molto simile al panico. Perché, all’improvviso, senza un minimo avvertimento, lui fu una cosa doppia… se stesso e l’altro essere. Per un istante caotico vide ciò che vedeva la creatura, sentì ciò che la creatura sentiva, seppe ciò che la creatura sapeva. E nello stesso istante, continuò egualmente ad essere Shepherd Blaine, esploratore dell’Amo, una mente della Terra, e lontanissima dalla patria.

E in quel preciso momento, il tempo scadde.

Vi fu una sensazione precipitosa, come se lo spazio stesso passasse, tuonando, ad una velocità fantastica. Shepherd Blaine, che stava protestando, venne scaraventato attraverso cinquemila anni-luce in un luogo ben preciso, nella parte settentrionale del Messico.

III

Salì strisciando per uscire dal pozzo di tenebre nel quale era precipitato, facendosi strada a tentoni con una insistenza cieca che era quasi un istinto. E sapeva dov’era, era certo di saperlo, ma non riusciva ad afferrare quella conoscenza. Era già stato altre volte in quel pozzo, molte altre volte, e gli era familiare, ma adesso aveva qualcosa di strano che prima non aveva mai avuto.

Era in lui stesso, quella stranezza, e lo sapeva… quasi come se lui fosse un altro, come se fosse se stesso soltanto per metà, e l’altra metà di lui fosse occupata da un essere sconosciuto, posto con le spalle al muro, che soffiava in preda a un terrore travolgente e gridava in preda alla solitudine.