Si arrampicò disperatamente su per il pozzo, e la sua mente lottò, freneticamente, contro la cosa strana e miagolante che era in lui, anche se sapeva che era inutile lottare, che la cosa strana era venuta a vivere con lui, e sarebbe stata parte di lui per tutta la sua vita.
Si riposò, per un attimo, e cercò di chiarire se stesso, ma era troppe cose, ed era in troppi luoghi, e questo lo confondeva completamente. Era un essere umano (qualunque cosa ciò significasse) ed era una macchina che correva ed era una cosa rosea ed aliena accovacciata su di un pavimento azzurro ed era una entità priva di mente che percepiva per interi eoni di tempo urlante, che alla fine, quando si riusciva ad inchiodarli con la matematica, si riducevano ad una frazione di secondo.
Uscì strisciando dal pozzo, e le tenebre sparirono, e c’era una luce dolce. Era disteso sul dorso, e finalmente era ritornato a casa, e provò l’antica, antichissima gratitudine perché ancora una volta ce l’aveva fatta.
E finalmente seppe.
Era Shepherd Blaine. ed era un esploratore dell’Amo, che se ne andava lontano, per curiosare fra stelle sconosciute. Attraverso parecchi anni luce, e qualche volta trovava certe cose importanti, e altre volte non ne trovava. Ma questa volta aveva trovato una cosa, e parte di quella cosa era ritornata con lui.
La cercò e la trovò in un angolo della sua mente, raggomitolata per la paura, e cercò di confortarla, anche se la temeva. Perché era veramente terribile, disse a se stesso, essere prigionieri dentro la mente aliena. E, d’altra parte, era orrendo avere una cosa come quella intrappolata nella propria mente.
È molto duro per tutti e due, disse, parlando a se stesso, e a quell’altra cosa che adesso era parte di lui.
Rimase lì sdraiato, in silenzio (dovunque si trovasse) e cercò di riordinare le proprie idee. Se ne era andato circa trenta ore prima… non lui personalmente, naturale, perché il suo corpo era rimasto lì: ma la sua mente era andata, e con la mente quella piccola macchina rapida, su di un pianeta ignorato, che girava attorno ad un sole sconosciuto.
Il pianeta non era diverso da una quantità di altri pianeti: una desolazione urlante, ed era appunto così che si rivelavano, in generale, gli altri mondi, quando vi scendevi. Questa volta era stato una desolazione urlante di sabbia, anche se avrebbe potuto essere benissimo una giungla o un deserto di ghiaccio, o un luogo nudo e spoglio, fatto semplicemente di roccia primordiale.
Per circa trenta ore lui aveva vagato sulla sabbia, e non aveva trovato nulla. Poi all’improvviso, era arrivato nella grande stanza azzurra in cui stava accovacciato l’essere rosa, e quando era ritornato indietro l’essere rosa, o almeno la sua ombra, era ritornata con lui.
Adesso la cosa uscì dal suo nascondiglio, e lui ne avvertì di nuovo il contatto: la conoscenza e la sensazione della conoscenza. Il suo sangue diventò poltiglia ghiacciata che gorgogliava nelle vene, e lui si irrigidì, all’odore ammuffito, al contatto viscido dell’estraneità: avrebbe voluto urlare, in preda al terrore, eppure non urlò. Rimase disteso, senza muoversi, e l’essere rosa si affrettò a rifugiarsi nella sua nicchia, ancora una volta, e vi rimase, raggomitolato strettamente.
Blaine aprì gli occhi, e vide che il coperchio del posto in cui si trovava era stato aperto, e il bagliore folgorante di una lampadina lo trafiggeva.
Fece una specie di inventario del proprio corpo: era tutto a posto. Non c’era ragione perché non fosse tutto a posto, poiché era rimasto lì disteso, a riposare per quelle trenta ore.
Si mosse, in modo da sollevarsi a sedere, e attorno a lui c’erano facce che lo fissavano, facce che ondeggiavano incerte nella luce.
«È stata dura?» chiese una faccia.
«È sempre dura», disse Blaine.
Uscì dalla sua macchina simile ad una bara e rabbrividì, perché all’improvviso aveva freddo.
«Ecco la sua giacca, signore», disse una delle facce, che sovrastava un camice bianco.
La persona che aveva parlato gli tese la giacca per aiutarlo ad indossarla, e lui l’indossò, a fatica.
La stessa persona gli porse un bicchiere, e lui bevve un sorso e seppe che era latte. Avrebbe dovuto saperlo prima. Non appena qualcuno ritornava, gli davano un bicchiere di latte. Con dentro qualcosa, forse? Non aveva mai pensato di domandarlo. Era una delle tante piccole cose che ai suoi occhi caratterizzavano l’Amo: per lui e per tutti gli altri come lui. L’Amo nel suo secolo di esistenza, o forse più, era riuscito ad accumulare tutta una serie di tradizioni, tutte più o meno stravaganti.
Era il ritorno (che adesso gli appariva familiare, mentre se ne stava ritto, e sorseggiava il suo bicchiere di latte) nella grande sala operativa, con le sue file di luccicanti macchine delle stelle: alcune erano chiuse, altre aperte. E nelle macchine chiuse giacevano altri come lui. I loro corpi rimanevano lì, e le loro menti andavano lontano, nello spazio.
«Che ore sono?» domandò.
«Le nove di sera», disse un uomo, che teneva in mano una tabella.
L’estraneità stava di nuovo tornando nella sua mente, e ancora una volta rivisse quelle parole: Ehi, amico. Scambio la mia mente con la tua.
E adesso, alla luce della ragione umana, era una cosa assolutamente pazzesca. Probabilmente, era una formula di saluto. Un equivalente della stretta di mano. Una stretta di menti. E, a pensarci bene, era molto più sensato di una stretta di mano.
Una ragazza gli sfiorò il braccio con una mano.
«Finisca il latte», gli disse.
Se era una stretta di mente, era qualcosa di duraturo, perché la mente era rimasta. Adesso poteva sentirla: era una cosa aliena e sudicia, acquattata appena al di sotto del livello della sua coscienza.
«La macchina è ritornata in buone condizioni?» chiese.
L’uomo che teneva in mano la tabella annuì.
«Sì, nessun guaio. Abbiamo mandato giù i nastri».
Mezz’ora, pensò Blaine, con calma, e si sorprese di essere così calmo. Mezz’ora: era tutto il tempo che aveva, perché era il tempo necessario per analizzare i nastri. Esaminavano sempre i nastri dell’esplorazione non appena arrivavano: questo lo sapeva benissimo.
E lì doveva esserci tutto: tutti i dati, che raccontavano l’intera faccenda. Non vi sarebbe stato il minimo dubbio su ciò che era accaduto. E, prima che lo leggessero, lui doveva essere fuori portata.
Tornò a guardarsi intorno, e ancora una volta provò il brivido di soddisfazione e di orgoglio che aveva provato, tanti anni prima, quando lo avevano condotto per la prima volta in quella sala. Perché quello era il cuore stesso dell’Amo: era da lì che ci si lanciava lontano lontano, era da lì che ci si immergeva in luoghi immensamente distanti.
Sarebbe stato duro andarsene, lo sapeva: sarebbe stato duro voltare le spalle a tutto, perché lì c’era una parte di lui.
Ma non c’erano dubbi: lui doveva andarsene.
Finì il latte, e restituì il bicchiere vuoto alla ragazza. Si girò verso la porta.
«Un momento», disse l’uomo, tendendogli la tabella. «Ha dimenticato di firmare, signore».
Brontolando, Blaine staccò la matita dalla tabella e firmò. Era una sciocchezza, ma una sciocchezza rituale. Bisognava firmare alla partenza e bisognava firmare di nuovo al ritorno, e bisognava tenere la bocca chiusa, e l’intera organizzazione dell’Amo si comportava come se fosse certa che tutto sarebbe andato a rotoli se qualcuno avesse dimenticato la minima formalità.
Restituì la tabella.
«Mi scusi, signor Blaine, ma ha dimenticato di annotare quando ritornerà per la valutazione dei dati raccolti».
«Facciamo per domattina alle nove», rispose Blaine, seccamente.
Avrebbero potuto segnalare quello che volevano, perché tanto lui non sarebbe ritornato. Gli restavano trenta minuti, anzi, meno di trenta minuti, ormai. E gli servivano tutti.