Perché il ricordo di quella notte, quella notte di tre anni prima, si faceva sempre più nitido ed acuto via via che i secondi trascorrevano. Ricordava non soltanto le parole, ma persino il loro tono. Quando Godfrey Stone aveva telefonato, quella notte, nel suo respiro c’era il fremito di un singhiozzo, come se avesse corso, e c’era una sfumatura di panico.
«Buonanotte a tutti», disse Blaine.
Uscì nel corridoio, e si chiuse la porta alle spalle, e il corridoio era deserto. Le altre porte erano chiuse, sebbene sopra alcune di esse splendessero le luci. Il corridoio era deserto, e dovunque regnava il silenzio. Ma anche in quel silenzio, in quel vuoto, c’era una sensazione di vitalità massiccia, come se tutto l’Amo stesse vegliando. Era come se quel complesso poderoso non dormisse mai… come se tutti i laboratori e le stazioni sperimentali, tutte le fabbriche e le università, tutti i centri di pianificazione e le immense biblioteche e i depositi e tutto il resto non dormissero mai.
Rimase immobile per un momento, a riflettere. Ed era tutto molto semplice. Poteva andarsene, e nessuno lo avrebbe fermato. Avrebbe tirato fuori la sua macchina dal parcheggio, a cinque isolati di distanza, e si sarebbe diretto a nord, verso il confine. Ma, si disse, era troppo semplice e diretto. Era troppo ovvio. Era precisamente quello che l’Amo avrebbe intuito.
E poi c’era qualcosa d’altro… il pensiero tormentoso, il dubbio ossessivo, mostruoso: Doveva davvero fuggire?
Cinque uomini in tre anni, dopo Godfrey Stone… e questo che cosa dimostrava?
Si avviò a grandi passi lungo il corridoio, con la mente impegnata nell’esaminare i dubbi, ma mentre li esaminava sapeva già che non c’era posto per dubbi. Qualunque dubbio si presentasse, lui sapeva di avere ragione. Ma la ragione era un fattore intellettuale, e il dubbio un fattore emotivo.
Ammise, di fronte a se stesso, che tutto si riduceva ad un unico fattore: non voleva fuggire dall’Amo. Gli piaceva stare lì: gli piaceva il lavoro che faceva. Non aveva nessuna voglia di andarsene.
Ma aveva discusso tutto ciò con se stesso molti mesi prima. E allora era giunto alla decisione. Quando fosse venuto il momento, lui se ne sarebbe andato. Anche se avesse desiderato immensamente rimanere, avrebbe lasciato perdere tutto e sarebbe fuggito.
Perché Godfrey Stone aveva saputo, e nella sua fuga disperata aveva trovato il tempo per fare una telefonata disperata… non per invocare aiuto, ma per lanciare un grido di avvertimento.
«Shep», aveva detto, singhiozzando le parole, come se avesse corso a lungo, «Shep, ascoltami, e non interrompermi. Se mai diventassi alieno, scappa. Non indugiare neppure un minuto. Scappa».
E poi il ricevitore era ricaduto, e tutto era finito lì.
Blaine ricordava di essere rimasto immobile, inchiodato, con il telefono ancora stretto in pugno.
«Sì, Godfrey», aveva detto al silenzio all’altro capo della linea. «Sì, Godfrey, me ne ricorderò. Ti ringrazio… e buona fortuna».
E poi non aveva più saputo nulla. Non aveva più avuto notizie di Godfrey Stone.
Se mai diventassi alieno, aveva detto Godfrey Stone. E adesso lui era diventato alieno, perché poteva sentire l’alienità, come un secondo io in agguato dentro il proprio cervello. Ed era stato quello, il modo in cui era diventato alieno. Ma gli altri? Non tutti, certamente, avevano incontrato una creatura rosa, ad una distanza di cinquemila anni-luce. In quanti altri modi un uomo poteva diventare alieno?
L’Amo avrebbe capito che lui era alieno. Non era possibile impedire loro di scoprirlo. Lo avrebbero capito appena avessero analizzato i nastri. Lo avrebbero preso e lo avrebbero studiato… perché se i nastri dicevano che lui era alieno, non potevano spiegare in che modo e in che misura lo era diventato. La spia gli avrebbe parlato in modo molto amichevole, addirittura comprensivo, e intanto avrebbe cercato di sradicare l’alieno dalla sua mente… di sradicarlo dal suo nascondiglio, per scoprire che cos’era.
Arrivò all’ascensore. Stava premendo il pulsante, quando una porta del corridoio si aprì.
«Oh, Shep, sei tu», disse l’uomo che era apparso sulla soglia. «Ti ho sentito passare per il corridoio, e mi sono chiesto chi poteva essere».
Blaine si girò di scatto.
«Sono appena ritornato», disse.
«Perché non vieni dentro un momento?», lo invitò Kirby Rand. «Stavo proprio per stappare una bottiglia».
Non era il caso di esitare, e Blaine lo sapeva. O entrare a bere un paio di bicchieri, oppure rifiutare seccamente. E, se avesse rifiutato seccamente, Rand si sarebbe insospettito. Perché sospettare era proprio il mestiere di Rand. Lui era il capo sezione del Servizio di Sicurezza dell’Amo.
«Grazie», disse Blaine, con tutta la calma possibile. «Ma un bicchierino soltanto. C’è una ragazza che mi aspetta, non posso farla attendere troppo».
E questo, si disse, avrebbe bloccato ogni invito beneintenzionato per andare a pranzo insieme o vedere uno spettacolo.
Sentì l’ascensore che saliva, ma se ne allontanò. Non poteva farci niente. Era un brutto guaio, ma non poteva farci niente.
Quando varcò la soglia, Rand gli batté una mano sulla spalla, con allegro cameratismo.
«Fatto buon viaggio?» domandò.
«Nessun guaio».
«Molto lontano?»
«Circa cinquemila».
Rand scosse il capo.
«Credo che sia proprio una domanda stupida», disse. «Adesso tutti vanno lontano. Abbiamo quasi finito tutti i mondi vicini. Fra un centinaio d’anni, arriveremo a diecimila».
«Non fa nessuna differenza», gli disse Blaine. «Basta andare, e si arriva. La distanza, a quanto sembra, non costituisce un fattore importante. Forse, quando andremo molto lontano, accumuleremo un certo ritardo. A metà della galassia. Ma dubito molto che questo succederà».
«I teorici pensano di no», disse Rand.
Attraversò l’ufficio, si diresse verso la massiccia scrivania, e prese la bottiglia: ruppe il sigillo e girò il tappo.
«Sai, Shep», disse, «siamo proprio convinti di una facenda fantastica. Cerchiamo di stare al passo, e qualche volta per noi diventa tutto normale. Ma c’è sempre la fantasia».
«Solo perché ce ne siamo accorti così tardi», disse Blaine. «Perché abbiamo ignorato per tanto tempo questa nostra facoltà. Era in noi da sempre, e non l’abbiamo mai sfruttata. Perché non era pratica: perché era fantastica. Perché non riuscivamo a crederci. Gli antichi ne avevano intuito la presenza, ma non riuscivano a comprenderla. Pensavano che fosse magia».
«È quello che pensa ancora una quantità di gente», disse Rand.
Prese due bicchieri, e tolse un po’ di ghiaccio dal frigorifero a muro. Poi versò due dosi abbondante di liquore.
«Su, bevi», disse, porgendo il bicchiere a Blaine.
Rand si accomodò su una poltroncina che stava dietro la scrivania.
«Siediti», disse a Blaine. «Non avrai poi tanta fretta. E non è piacevole, bere stando in piedi».
Blaine sedette.
Rand si sistemò comodamente, e allungò i piedi sulla scrivania.
Restavano soltanto venti minuti!
E, mentre se ne stava lì seduto, con il bicchiere stretto fra le dita, in quel secondo silenzio, prima che Rand riprendesse a parlare, a Blaine sembrò di nuovo di udire le pulsazioni di quella cosa immane che era l’Amo, come se ci fosse un grande essere senziente, rannicchiato sulla madre terra immersa nella notte, nel Messico settentrionale, come se avesse cuore e polmoni e tante vene pulsanti; e lui udiva quelle pulsazioni.
Rand, dietro la scrivania, raggrinzì il volto in una maschera di cordialità.
«Voialtri vi divertite», disse. «Qualche volta, sinceramente, vi invidio».
«È un lavoro come un altro», disse Blaine, in tono di noncuranza.
«Oggi sei andato lontano cinquemila anni-luce. Deve essere una bella soddisfazione».
«Sì, credo che sia abbastanza soddisfacente», ammise Blaine. «Il brivido intellettuale di sapere dove si è. In effetti, credo che questa volta sia andata meglio del solito. Mi sono imbattuto in una forma di vita».