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Ma era vecchia… un modello molto vecchio, che l’Amo aveva sostituito circa una decina di anni prima, e non c’era il minimo dubbio; in un modo o nell’altro, proveniva dall’Amo. Dovevano esserci parecchi vecchi modelli come quello, accatastati da qualche parte, in qualche magazzino semidimenticato: immagazzinati, probabilmente, perché era più facile immagazzinarli che distruggerli. Perché cose di quel genere bisognava o metterle sottochiave, al sicuro, o distruggerle: non era possibile buttarle via e basta. Quella macchina era la chiave del monopolio dell’Amo, ed era inammissibile che cadesse in mani altrui.

Eppure, una di quelle macchine era caduta in mano altrui, e adesso era lì, muta testimonianza d’uno degli intrighi più abili e più complicati di cui l’Amo era stato parte involontaria.

Blaine cercò di immaginare in quale modo Stone c’era riuscito: e, mentre ci pensava, sentì di ammirare ancora di più quell’uomo. C’èra voluto parecchio denaro, indubbiamente, e c’erano voluti agenti fidatissimi. e un piano d’operazioni che non ammetteva sviste né errori.

Si chiese vagamente fino a che punto c’entrava Harriet, in quella storia. Senza dubbio, si disse, non aveva mostrato timori o esitazioni, quando lo aveva aiutato a sfuggire alle grinfie dell’Amo. Era proprio la donna più adatta a congegnare uno scherzo del genere: calma, sicura di sè, con una notevole conoscenza di tutti i meccanismi dell’Amo. E aveva un cervello che funzionava con la spendida precisione di un cronometro svizzero.

Stone aveva riposto grandi speranze in quella macchina, e adesso quelle speranze erano svanite. Adesso Stone era morto, e la macchina delle stelle se ne stava lì, in quel deposito abbandonato, e sarebbe servita come prova ad un uomo così pieno di odio da essere capace di distruggere completamente la cinetica paranormale: radici, rami e foglie.

E Finn poteva servirsi di quella macchina; anche se veniva chiamata "macchina", in realtà era molto diversa dalle macchine cui la mente umana si era andata abituando ormai da secoli. Non aveva parti mobili, e non aveva una funzione distinguibile. Era stata creata per funzionare solo sulla mente e sui sensi umani. Funzionava per mezzo del simbolismo, non per mezzo dell’energia… eppure funzionava. Come per secoli aveva funzionato un rosario fra le mani di un devoto, prima che incominciasse a formarsi il concetto dell’esistenza di umani paranormali.

Se le speranze erano svanite, pensò Blaine, allora quella macchina non doveva assolutamente restare lì. Forse non doveva altro, a Stone: ma quello glielo doveva. Doveva ripagarlo in qualche modo, si disse, per la telefonata di avvertimento di quella notte ormai tanto lontana.

E c’era un modo per farlo… c’era un modo, e lui lo sapeva: purché fosse riuscito ad estrado dal mare schiumante di conoscenza aliena che si gonfiava dentro di lui.

Lo cercò e lo trovò, e nel trovarlo sfiorò un’altra conoscenza, e tutto quanto era bene etichettato e disposto in bell’ordine, come se un commesso solerte avesse lavorato per fare l’inventario della sua mente sovraffollata.

Si fermò, fragile e tremante di fronte alla scoperta di quegli scaffali e di quell’ordine, perché non aveva neppure immaginato che quella strana sistemazione venisse compiuta dentro di lui. Ma quello era tipico di un essere umano, si disse: era una dimostrazione dell’istintiva rivolta umana contro il disordine casuale dell’ammasso di dati che erano stati scaricati nella sua mente dall’essere rosa, su quel pianeta lontano.

L’essere era ancora con lui, o almeno l’essenza di quell’essere: e la cercò con accanimento, fra le scaffalature della sua mente. Ma non c’era. Non c’era la minima traccia della sua presenza in quanto tale, però c’era qualcosa d’altro: c’era qualcosa che non andava affatto.

Sbalordito, si mise freneticamente sulle tracce di quello che non andava e finalmente lo scoprì e l’afferrò, lo fiutò inorridito. Perché si trattava di questo, semplicemente: la sua mente non era più una mente interamente umana. E all’orlo di quel terrore c’era il mistero tremendo, la sua capacità di conservare una sufficiente misura di umanità da rendersi conto di quanto era avvenuto.

Tese la mano, brancolando alla cieca, e urtò contro uno spigolo della macchina delle stelle e vi si aggrappò, con tutte le energie di cui era capace.

E tutto derivava, a quanto poteva sospettare, dal semplice fatto che lui rimaneva umano, e soprattutto umano, in superficie: ma sotto quella superficie era la fusione di due individui, della conoscenza e forse dell’etica e delle motivazioni di due forme di vita diverse. Ed era del tutto logico, a pensarci bene, perché il Rosa non era cambiato, era rimasto tranquillo e soddisfatto: non c’era sicuramente la minima traccia di umanità in lui, anche se dentro di lui c’era una certa porzione di umanità, e Dio solo sapeva che altro poteva esserci.

Allentò le dita che stringevano la macchina delle stelle, passò la mano, lentamente, su quella struttura metallica, liscia come il cristallo.

C’era un modo… se lui fosse riuscito a farlo. Adesso possedeva la conoscenza, ma possedeva anche la tecnica?

Il tempo, gli aveva detto il Rosa, il tempo è la cosa più semplice che esista. E tuttavia, pensò Blaine, non era certamente facile da manipolare come aveva sostenuto quell’essere.

Rimase immobile a riflettere, e ciò che doveva fare diventò perfettamente chiaro.

Non valeva la pena di percorrere la strada del passato, perché quella macchina era già nel passato: aveva lasciato attraverso il passato una scia lunghissima e nebulosa.

Ma il futuro era tutta un’altra faccenda. Poteva venire trasportata nel futuro: e allora, quel preciso momento e tutti i momenti successivi sarebbero diventati il suo passato, e tutto ciò che ne sarebbe rimasto sarebbe stata una traccia spettrale… e una risata e una beffa e una magia che non avrebbe costituito certamente un argomento positivo per il sermone incendiario di un uomo che si chiamava Lambert Finn.

E soprattutto, pensò Blaine, con ogni probabilità lo avrebbe spaventato a morte.

Si tese con tutta la sua mente per circondare la macchina, e non vi riuscì. La sua mente si apriva e si protendeva, ma non era abbastanza ampia, e lui non era in grado di abbracciare la macchina completamente. Si riposò, per qualche istante, e poi tornò a tentare.

Nel deposito c’era una stranezza ed una alienità che lui non aveva notato, prima, e c’era una minaccia inespressa nel fruscio arido delle erbacce al di là della finestra spezzata, e l’aria era così pungente e carica d’un odore acuto che gli faceva rizzare i capelli sulla nuca. Era qualcosa di sconvolgente, perché all’improvviso gli sembrava di avere perduto completamente ogni contatto con il mondo in cui si trovava, e nulla, né il pavimento su cui si reggeva, né l’aria che respirava, e neppure il corpo che lo rivestiva gli era familiare e in quell’assenza di familiarità c’era un orrore incredibile, in quello spostamento, da ciò che era noto e che non riusciva più a ricordare, a questo ignoto nel quale non riusciva a trovare il minimo punto di riferimento. Ma sarebbe andato tutto bene, se fosse riuscito a spostare quello stranissimo manufatto che teneva stretto nella sua mente, perché era proprio quello lo scopo per cui era stato tratto dall’oscurità e dal tepore e dalla comoda sicurezza: e se avesse compiuto quel lavoro, avrebbe potuto ritornarvi, avrebbe potuto tornare ai ricordi di altri tempi, alla lenta assimilazione di nuovi dati, alla soddisfazione di contare i fatti nuovi, uno ad uno, come un avaro che conta il suo denaro, mentre li ammucchiava in lunghe pole ben ordinate.

Il manufatto, nonostante la sua stranezza, era piuttosto facile da maneggiare. Le sue radici non si estendevano a grande profondità, nel passato, e le coordinate corrispondevano in modo soddisfacente: ormai ce l’aveva quasi fatta. Ma non doveva affrettarsi, nonostante l’urlante necessità di affrettarsi: doveva riuscire in qualche modo ad avere pazienza. Attese che le coordinate ricadessero al posto giusto, misurò scrupolosamente, senza fretta, la tensione temporale, e poi applicò una leggera torsione alla cosa, una torsione precisa, e la sistemò esattamente dove voleva sistemarla.