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Poi si precipitò di nuovo al suo posto, di nuovo nell’oscurità e nel tepore, e Blaine si ritrovò spoglio di tutto, tranne che della sua personalità umana, in un luogo che era un nulla nebbioso.

Non c’era nulla, là… nulla, tranne lui e la macchina delle stelle. Tese la mano e toccò la macchina delle stelle, ed era molto concreta, molto solida. E, a quanto poteva vedere lui, era anche l’unica cosa concreta che ci fosse, in quel posto.

Perché anche la nebbia, se pure era davvero nebbia, aveva una qualità irreale, come se cercasse di mascherare il fatto stesso che esistesse.

Blaine rimase in silenzio, impietrito, senza osare muoversi… temendo che un movimento qualsiasi lo precipitasse in un abisso di nera eternità.

Perché quello, si disse, era il futuro. Era un luogo privo di tutte le caratteristiche della matrice spazio-temporale che lui conosceva. Era un luogo in cui non era ancora accaduto nulla… un vuoto assoluto. Non vi erano né la luce né le tenebre: non vi era altro che quel vuoto. Non vi era altro che quel vuoto. Non vi era mai stato nulla, in quel luogo, e non c’era neppure nulla destinato ad occuparlo… fino al momento in cui lui e la sua macchina vi si erano inseriti, intrusi che erano usciti dal loro tempo.

Espirò, lentamente, e tornò a espirare… e non v’era nulla da espirare.

Le tenebre si precipitarono su di lui, e il battito del suo sangue nelle vene risuonava echeggiando dentro alla sua testa, e tese le mani, disperatamente, per afferrarsi a qualcosa, a qualunque cosa… in quel luogo in cui non vi era nulla cui afferrarsi.

b in quello stesso istante ritornò l’alienità, una alienità sbalordita e spaventata, e un guazzabuglio di strane figure simboliche, che persino nella sua atroce sofferenza mentale riuscì a identificare per bizzarri simboli matematici, fluì fulmineamente nel suo cervello. C’era di nuovo l’aria da respirare, e c’era un pavimento solido sotto i suoi piedi, e poteva fiutare l’odore di muffa che aleggiava dentro al deposito accanto all’autostrada.

Era ritornato indietro, ed era ritornata anche la presenza aliena, perché non l’avvertiva più dentro di sè. Era ritornata all’oscurità ed al tepore dentro alla sua mente.

Rimase ritto, senza muoversi, e provò a controllare: era tutto a posto, nel suo corpo. Aprì lentamente gli occhi, perché, in qualche modo, si erano chiusi, e attorno a lui c’era soltanto l’oscurità: finalmente si ricordò della torcia elettrica che stringeva ancora in mano. Eppure l’oscurità era meno intensa di prima: adesso, dalla finestra spezzata filtrava la luce della luna appena sorta.

Alzò la torcia elettrica e spinse il pulsante, e la luce si irradiò, e la macchina era lì, davanti a lui, ma strana, priva di sostanza… lo spettro della macchina, la traccia che aveva lasciato dietro di sè quando si era spostata nel futuro.

Alzò il braccio libero e si asciugò la fronte sudata con la manica della giacca. Adesso era finita. Aveva fatto quello che doveva fare. Aveva sferrato il colpo in nome di Stone: aveva trovato il modo di fermare Finn.

Non c’era più l’oggetto da mostrare al popolo: non c’era più il testo sul quale Finn poteva predicare. C’era, invece, una risata di scherno, la risata della stessa magia che Finn stava combattendo da anni.

Avvertì un movimento, dietro di sè, e si voltò di scatto, sì fulmineamente che la stretta delle sue dita sulla lampada tascabile si allentò, e la lampada tascabile cadde sul pavimento e rotolò via.

Una voce parlò nell’oscurità.

«Shep,» disse quella voce, con trasporto, «è stata un’azione magnifica.»

Blaine si sentì invadere dal gelo della disperazione.

Perché quella era la fine, e lui lo sapeva. Era arrivato fin dove poteva arrivare. Più oltre non poteva andare.

Conosceva bene quella voce. Non avrebbe mai potuto dimenticarla.

L’uomo che stava nell’oscurità del deposito era il suo vecchio amico Kirby Rand.

XXIV

Rand era una macchia più scura nell’oscurità, quando si fece avanti e raccolse la torcia elettrica che era caduta sul pavimento. Girò su se stesso per dirigere il raggio di luce sulla macchina delle stelle, e nel flusso di chiarore si vedevano soltanto minuscole particelle di polvere che danzavano, proprio nel cuore della macchina.

«Sì,» disse Rand. «Proprio un’azione magnifica. Non so come hai fatto e non so neppure perché l’hai fatto, ma senza dubbio hai sistemato la faccenda.»

Spense la torcia elettrica e per un attimo rimasero in silenzio, nell’oscurità attenuata soltanto dai raggi di luna che filtravano dalle finestre.

Poi Rand riprese a parlare.

«Immagino che ti renda conto che l’Amo ti deve un ringraziamento, per quello che hai fatto.»

«Piantala,» rispose Blaine. bruscamente. «Sai benissimo che non l’ho fatto per l’Amo.»

«Tuttavia,» disse Kirby Rand. «si dà il caso che, in questo particolare settore, i nostri interessi coincidano. Non potevamo permetterci che questa macchina andasse perduta. Non potevamo tollerare che finisse in mani sbagliate. Tu lo capisci, naturalmente.»

«Naturalmente,» disse Blaine.

Rand sospirò.

«Mi aspettavo che succedesse un guaio, e se c’è qualcosa che l’Amo non vuole sono proprio i guai. In particolare quando si tratta di guai in provincia.»

«Non c’è stato nessun guaio,» disse Blaine, «di cui l’Amo debba preoccuparsi.»

«Sono lieto di saperlo. E tu. Shep? Come te la passi?»

«Non troppo male, Kirby.»

«Mi fa piacere,» disse Kirby Rand. «Mi fa molto piacere. E adesso, credo che faremmo bene ad andarcene.»

Si diresse verso la finestra infranta, facendo strada all’altro, poi si scostò.

«Passa tu per primo,» disse a Blaine. «Io ti seguirò. Vorrei chiederti, in via del tutto amichevole, di non cercare di scappare di nuovo.»

«Non aver paura,» rispose Blaine, in tono asciutto, e scavalcò rapidamente la finestra.

Poteva fuggire, naturalmente, si disse, ma sarebbe stata una sciocchezza enorme perché, senza il minimo dubbio, Rand aveva una pistola, e sapeva usarla in modo efficiente, anche nella luce incerta della luna. E soprattutto, se ci fosse stata una sparatoria, Harriet sarebbe arrivata di corsa, per cercare di aiutarlo: e se anche lei si fosse fatta prendere, non gli sarebbe rimasto neppure un amico. Harriet, si disse, quasi pregando, doveva restarsene nascosta nel boschetto di salici. Avrebbe visto quello che stava succedendo, e ben presto sarebbe riuscita a trovare qualche soluzione.

Harriet, si disse, era la sua unica speranza.

Si lasciò ricadere al suolo, e si fece da parte, aspettando che uscisse anche Rand.

Rand scavalcò la finestra e si girò verso di lui, un pò troppo rapidamente, con un gesto tipico da cacciatore, e poi si rilassò, ridacchiando.

«È stato un bellissimo trucco, Shep,» disse. «Molto efficace. Un giorno o l’altro dovrai spiegarmi esattamente come ci sei riuscito. Rubare una macchina delle stelle non è una cosa facile.»

Blaine ringoiò il proprio sbalordimento, e si augurò che il chiaro di luna non permettesse a Rand di leggere l’espressione che sapeva di avere stampata in faccia.

Rand allungò una mano e lo prese per il gomito, con fare amichevole.

«La macchina è laggiù,» disse. «Proprio sul ciglio della strada.»

Attraversarono insieme la distesa di erbacce fruscianti, e adesso tutto era diverso: il panorama non era più tenebroso e pauroso, ma un luogo dipinto magicamente dai raggi della luna. Alla loro destra stava la città, una massa di case oscurate che sembravano più rocce che case, e una linea di alberi nudi che spiccavano, come pennelli messi in fila, contro il cielo, ad oriente. A occidente ed a nord si stendeva la prateria argentata, piatta e uniforme e resa immensa dalla sua stessa uniformità.