Grant si appoggiò alla spalliera della poltrona con un sorrisetto appena appena maligno.
Poi allungò una mano e picchiettò le dita sulla vestaglia, che emise un suono simile a quello d’un tamburo smorzato.
«Bene», domandò, «le piace, signor Blaine?»
«Glielo farò sapere», gli rispose Blaine, «quando riuscirò a metterle le mani addosso».
Grant si alzò dalla poltrona e ritornò alla tavola, girando attorno a Blaine. Beffardamente. Prese la bottiglia, se la portò alla bocca e bevve un altro lungo sorso.
«Non ci riuscirà, a mettermi le mani addosso», disse, «perché fra un momento la spingerò dentro quel transo laggiù, e la rispedirò diritto all’Amo».
Un altro sorso poi depose la bottiglia.
«Non so che cosa abbia fatto», disse. «Non so perché la vogliano. Ma eseguo gli ordini».
Tornò a sollevare a mezzo la bottiglia, poi cambiò idea. La spinse al centro della tavola, si avvicinò a Blaine e restò lì, a torreggiare sopra di lui.
C’era un’altra immagine di un altro pianeta, e c’era un essere che camminava lungo qualcosa che avrebbe potuto essere una strada. L’essere era completamente diverso da tutti quelli che Blaine aveva avuto occasione di vedere. Sembrava un cactus ambulante, ma non era affatto un cactus, e con ogni verosimiglianza non era neppure un vegetale. Ma né quell’essere né la strada erano molto importanti. Quello che contava era il fatto che alle calcagna del cactus, trotterellando goffamente su quella che poteva essere una strada, c’erano una dozzina di vestaglie.
Cani da caccia, pensò Blaine. Il cactus era un cacciatore, e quelli erano i suoi cani. Oppure era un trapper, e quelle erano le sue trappole. Erano vestaglie, importate da quel pianeta tutte giungle, e addomesticate, forse catturate da qualche viaggiatore spaziale abbastanza resistente per sopportare le radiazioni stellari, e portare su quel pianeta, per venire scambiate con qualche altra merce di valore.
Forse pensò disperatamente Blaine, era proprio da quel secondo pianeta che la vestaglia avvolta strettamente attorno a lui era stata portata all’Amo.
E c’era anche qualche cosa d’altro che martellava il suo cervello. Una specie di frase, una frase molto aliena, forse nel linguaggio del cactus. Era barbara e per pronunciarla bisognava torcere la lingua, e non aveva senso, ma mentre Grant si chinava con le mani protese per afferrarlo e sollevarlo, Blaine urlò quella frase con tutte le sue forze.
E mentre urlava, la vestaglia si staccò. Non lo teneva più bloccato. Blaine rotolò via, con una poderosa torsione del corpo, verso le gambe dell’uomo che si stava chinando verso di lui.
Grant finì lungo disteso, con la faccia contro il pavimento, lanciando un ruggito di rabbia. Blaine, strisciando freneticamente sulle mani e sulle ginocchia, si liberò e balzò in piedi, sfrecciò al di là della tavola.
Grant si rialzò dal pavimento. Il sangue gli sgocciolava lentamente dal naso, che aveva battuto sull’impiantito. Una mano era spellata, e perdeva sangue dalle nocche.
Mosse un rapido passo in avanti, e il suo volto era alterato da una duplice paura… la paura di un uomo che era riuscito a liberarsi della stretta della vestaglia, e la paura di avere fallito il proprio colpo.
Poi balzò, a testa bassa, a braccia protese, con le dita aperte, per afferrare Blaine. Era grande e grosso e poderoso, ed era spinto da una disperazione estrema che lo rendeva doppiamente pericoloso, perché non pensava neppure ai rischi che lo potevano minacciare.
Blaine girò su se stesso, spostandosi… ma non riuscì a spostarsi abbastanza. Una delle mani protese di Grant gli afferrò la spalla, non riuscì a tenere la presa: le dita tirarono, artigliando furiosamente, ma si chiusero sulla camicia di Blaine, che si lacerò con una specie di stridio sommesso.
Grant si girò di scatto, e si scagliò di nuovo in avanti, e un ringhio gli saliva dalla gola. Blaine, con i tacchi piantati saldamente sul pavimento, sferrò un pugno fulmineo, lo sentì centrare la carne e le ossa, sentì un brivido che scorreva nel corpo di Grant, mentre l’uomo indietreggiava, vacillando.
Blaine colpì ancora ed ancora, seguendo Grant: erano colpi il cui urto saliva dalle sue ginocchia, e arrivavano a segno con un impatto che gli intorpidiva tutto il braccio, dal gomito in giù… colpi che scuotevano Grant e lo facevano barcollare e lo ricacciavano indietro, spietatamente, inesorabilmente.
Non era la collera che animava Blaine, anche se in lui c’era collera: e non era paura e non la sicurezza di sè: era la semplice, fredda logica. Quella era la sua unica possibilità; doveva finire l’uomo che gli era davanti, altrimenti sarebbe stata finita per lui.
Era riuscito a disorientarlo con quel primo colpo fortunato, e non poteva fermarsi. Poiché non era altrettanto massiccio, avrebbe perduto tutto il suo vantaggio, se avesse lasciato che Grant riacquistasse l’equilibrio, se gli avesse lasciato la possibilità di ripiombargli addosso o di sferrargli un pugno.
Grant vacillava pazzamente, con le mani che artigliavano frenetiche l’aria: era ormai stordito dai colpi. Deliberatamente, senza pietà, Blaine mirò il mento.
Il colpo arrivò a segno, con un tonfo sommesso, e la testa di Grant si rovesciò all’indietro, ripiegandosi da un lato. Il suo corpo diventò una cosa inerte, quasi priva di muscoli e di ossa, che si piegava su se stessa. Grant si afflosciò e cadde sul pavimento, vi giacque come un pupazzo di stoffa privato della forza interiore della segatura.
Blaine lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Sentiva il dolore pungente dei tagli nelle nocche delle dita, l’intorpidimento sordo e tormentoso che gli invadeva i muscoli esausti.
E poi lo colse un vago senso di sbalordimento… gli sembrava strano che gli fosse riuscito di fare una cosa simile: lui, con i suoi pugni, era riuscito a ridurre in un fantoccio sanguinante quell’uomo grande e grosso.
Aveva centrato il primo colpo, e quella era stata la sua fortuna, pura e semplice fortuna. E aveva trovato la chiave che faceva disserrare la vestaglia, e anche quella era stata una semplice fortuna?
Rifletté, e comprese che non era stata fortuna: era stata una buona, solida informazione ripescata dallo schedario di fatti scaricato nel suo cervello quando l’essere di quel pianeta lontano cinquemila anni-luce aveva scambiato la propria mente con la sua. Quella frase era un ordine, che imponeva alla vestaglia di togliere le grinfie dalla preda che aveva intrappolato. Durante uno dei suoi vagabondaggi mentali in mondi inimmaginabili, il Rosa aveva assorbito un quantitativo enorme di informazioni relative al popolo dei cactus. Dotato di una tremenda facoltà di discernimento, era riuscito a selezionare l’unico fatto, in apparenza privo di importanza, che in un dato momento aveva acquistato un enorme valore come fattore di sopravvivenza.
Blaine continuò a guardare Grant: e l’uomo non dava segno di rinvenire.
E adesso cosa doveva fare? si chiese Blaine.
Doveva andarsene di lì, naturalmente, e il più presto possibile. Perché fra poco, indubbiamente, qualcuno dell’Amo sarebbe uscito dal transo, a chiedere come mai lui non era stato ancora recapitato a destinazione.
Sarebbe fuggito di nuovo, si chiese Blaine, amaramente. Fuggire era la sola cosa che sapeva fare bene. Ormai erano settimane che continuava a fuggire, e a quanto sembrava, la sua fuga era destinata a non avere mai fine.
Un giorno o l’altro, lo sapeva, avrebbe dovuto smettere di fuggire. Avrebbe dovuto fermarsi da qualche parte, per resistere, se non per nessun altra ragione, per salvare la propria dignità, il rispetto verso se stesso.
Quel momento, però, non era ancora venuto. Quella notte lui sarebbe fuggito di nuovo: ma questa volta la sua fuga avrebbe avuto uno scopo preciso. Questa volta avrebbe guadagnato qualcosa, finalmente, dalla sua fuga.
Si girò per prendere la bottiglia di liquore posata sulla tavola: e incespicò nella vestaglia, che stava muovendosi a lenti sobbalzi sul pavimento. Le sferrò un calcio con rabbia, e la vestaglia scivolò via, debolmente, cadde e si ammucchiò su una specie di grumo lucente nell’angolo, accanto al cammino.