Ma non c’erano grossi alberi. Non c’era niente, tranne quei salici interminabili, che si agitavano, sbattendo pazzamente nelle raffiche gelide del vento.
Avanzò incespicando, scivolò, cadde, si rimise in piedi, inciampò su pezzi di legna buttati a riva chissà quando da una piena del fiume. Era coperto di fango, i suoi abiti si stavano gelando, ma lui continuava ad avanzare. Doveva continuare a muoversi: doveva trovare un posto dove nascondersi: se si fosse fermato, se non fosse più riuscito a muoversi, sarebbe morto per congelamento.
Inciampò di nuovo, e si risollevò sulle ginocchia, e lì, sull’orlo dell’acqua, incastrata fra i salici, galleggiava una canoa semisommersa, che oscillava pesantemente sotto la spinta del fiume.
Una canoa!
Si passò una mano infangata sulla faccia, per cercare di schiarirsi la vista.
Era la stessa canoa, perché non poteva essercene un’altra.
Era la canoa che lui aveva abbandonato per avviarsi, costeggiando la riva.
Ed era ritornato al punto di partenza.
Lottò con il proprio cervello confuso, per cercare una spiegazione… e c’era una spiegazione, l’unica possibile.
Era bloccato su una piccola isola dove crescevano soltanto quei salici.
Non c’erano altro che quei salici. Non c’era un vero albero caduto, un albero cavo, un albero di qualunque genere. Non aveva fiammiferi, e anche se li avesse avuti, non c’era combustibile, a parte qualche pezzo di legno portato da una piena precedente.
I calzoni erano rigidi come cartone, induriti dal ghiaccio, e scricchiolavano quando lui piegava le ginocchia. Di minuto in minuto, gli sembrava, la temperatura scendeva… anche se era impossibile saperlo con certezza… aveva troppo freddo per poterlo stabilire.
Si rimise in piedi, lentamente, e rimase ritto, immerso nel vento tagliente, mentre la neve sibilava tra i salici e il fiume ringhiava collerico sotto la sferzata della tempesta, e l’oscurità si addensava, e c’era un’altra risposta, ad una domanda che non era ancora stata formulata.
Non sarebbe riuscito a sopravvivere su quell’isola fino al mattino dopo, e non avrebbe potuto andarsene. A quanto ne sapeva, poteva trovarsi a poche decine di metri dalla riva: ma anche in questo caso, che differenza avrebbe fatto? C’era da scommettere che anche se fosse arrivato a riva non avrebbe potuto cavarsela molto meglio.
Doveva esserci un modo, insistette. Non poteva morire su quel lurido, minuscolo isolotto. Non che la sua vita valesse molto… forse non aveva molto valore neppure lui stesso. Ma era l’unico uomo al mondo che poteva arrivare fino a Pierre, a cercare aiuto.
E quello era un bello scherzo. Non sarebbe mai arrivato a Pierre. Non sarebbe mai arrivato a lasciare l’isola. Sarebbe rimasto dov’era, e molto probabilmente nessuno lo avrebbe più trovato.
E quando fossero venute le piene primaverili, lui avrebbe disceso il fiume con gli altri detriti che la corrente avrebbe raccolto e trascinato via.
Si voltò, si allontanò dall’orlo dell’acqua, trovò un posto dove i salici erano così fitti che lo riparavano parzialmente dalla furia del vento, e sedette, lentamente, con le gambe distese. Alzò il collo della giacca, e fu solo un gesto automatico che non servì a nulla. Incrociò le braccia sul petto e infilò le mani semigelate nel debole tepore delle ascelle, e guardò diritto davanti a sè, in quel crepuscolo spettrale.
Era un errore, lo sapeva. Quando un uomo si trova in una situazione del genere, doveva continuare a muoversi.
Si batteva per rimanere vivo.
Ma era inutile, pensò. Un uomo poteva combattere disperatamente fino in fondo… e morire egualmente.
Doveva, doveva esserci un altro modo: un modo migliore di quello.
Un uomo veramente in gamba sarebbe riuscito a trovare un sistema migliore.
Il problema, si disse, cercando di isolarsi dalla situazione per acquistare maggiore obbiettività, il problema era di portare se stesso, il suo corpo, via da quell’isola: e non soltanto via da quell’isola, ma in un posto sicuro.
Ma non c’erano posti sicuri.
E all’improvviso seppe che ce n’era uno.
C’era un posto dove poteva andare. Poteva ritornare in quella stanza azzurra dove abitava il Rosa.
Ma no! sarebbe stato meglio che rimanere sull’isola, perché se vi fosse andato, sarebbe andato soltanto con la mente, e avrebbe lasciato lì il suo corpo. E quando sarebbe ritornato, il suo corpo, sicuramente, non sarebbe più servito a nulla.
Se avesse potuto portare anche il corpo, sarebbe stato tutto sistemato.
Ma non poteva portare il suo corpo.
E, anche se avesse potuto portarlo, sarebbe stato un errore, e forse un errore mortale.
Cercò di ricordare i dati di quel pianeta lontano, e non ci riuscì. Continuò a cercarli, e finalmente li tirò fuori dai recessi profondi dove li aveva sepolti, e li considerò, inorridito.
Se vi si fosse recato con il suo corpo, non sarebbe riuscito a sopravvivere neppure un minuto.
Per un essere della sua specie, quel mondo era veleno.
Ma dovevano esserci altri posti. Ci dovevano essere altri posti, se fosse riuscito ad andarci… se avesse potuto andarci tutto intero.
Rimase seduto, curvo, rannicchiato, per difendersi dal freddo e dall’umidità, e non sentiva neppure né l’umidita né il freddo.
Cercò il Rosa che era dentro di lui, e lo chiamò, e non ottenne risposta.
Chiamò e chiamò e chiamò, e non ottenne risposta. Sondò e cercò e frugò e non trovò la minima traccia e seppe, come una voce gli avesse parlato e glielo dicesse chiaramente, che era inutile continuare a chiamare e cercare, perché non l’avrebbe trovato. Non l’avrebbe più trovato, perché adesso lui stesso ne faceva parte. Loro due si erano fusi, e non c’era più un Rosa e un Umano, ma una bizzarra lega che era l’uno e l’altro.
Insistere a cercarlo sarebbe stato come cercare se stesso.
Qualunque cosa avesse fatto, doveva farlo da solo, per mezzo della forza totale di ciò che era diventato.
C’erano dati ed idee, c’era la conoscenza, c’era la tecnica e c’era anche qualcosa di sudicio che era Lambert Finn.
Scese nella propria mente, si addentrò fra gli scaffali e i ripiani, fra i barili e i bidoni e le casse e gli scatoloni, fra quell’incredibile mucchio di cianfrusaglie che non erano state ancora suddivise, in quel caos di miliardi di mozziconi che erano stati rovesciati alla rinfusa dentro di lui da un essere.
Trovò cose che lo sbalordirono, ed altre che lo disgustarono, e altre che erano ottime, ma che non avevano nessun valore nella sua situazione attuale.
E intanto, sotto sotto, insistentemente, la mente di Lambert Finn, non ancora assorbita e che forse non sarebbe mai stata assorbita ma avrebbe continuato a rintanarsi negli angoli, continuava a mettersi in mezzo.
La spinse da un parte, la scostò dal suo cammino, la spazzò sotto i tappeti e continuò a cercare… ma i pensieri sudici, i concetti e le idee ripugnanti, i pensieri di Finn, le convulsioni di quel nocciolo di orrore furioso usciti dal pianeta d’incubo di Finn continuavano a schizzare fuori.
E mentre, per la centesima volta, spazzava via quel sudiciume, captò un barbaglio di ciò che cercava e si lanciò all’inseguimento… attraversò tutta l’oscenità ed il male di quel nucleo di orrore fremente che aveva strappato alla mente di Finn. E fu lì che la trovò… non nel brillante mucchio di cianfrusaglie che aveva ereditato dal Rosa, ma nella massa di immondizia che aveva rubato a Finn.
Era una conoscenza aliena, e viscida e perversa, e seppe che aveva avuto origine sul pianeta che aveva fatto di Finn un pazzo fanatico: e mentre la teneva mentalmente fra le mani e vedeva in che modo funzionava, in un modo molto semplice, secondo concetti molto logici, captò almeno una parte del senso di colpa e di paura che aveva scatenato in Finn un odio furioso.