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«Shep, che ti prende?»

«Il rumore che senti… sono macchine. Un’orda che sta venendo qui. Sanno che Finn è morto.»

«E tu, Shep?»

«Me la caverò benissimo. Vai.»

Harriet avviò il motore.

«Ci vediamo,» disse.

«Vai, Harriet! E grazie. Grazie di tutto. Salutami Charline.»

«Addio, Shep,» disse lei, e la macchina si mosse, descrisse un ampio cerchio per infilare la strada che portava verso la collina.

Riuscirà a farcela, si disse Blaine. Se era riuscita a tagliare per quel canyon, non avrebbe faticato a cavarsela.

«Addio, Harriet,» aveva detto. «Salutami Charline.» E perché lo aveva detto? si chiese. Aveva dato un addio alla sua vecchia vita, probabilmente… aveva teso la mano per toccare un’ultima volta il passato. Ma non ci sarebbe stato un passato, all’Amo. Charline avrebbe continuato a dare le sue feste, e la gente più strana avrebbe continuato a comparire senza essere stata invitata. Perché l’Amo aveva un fascino ed uno scintillio… ed era un fantasma. Un vero peccato. Perché l’Amo era stato una delle cose più glandi, più vertiginose, più belle che fossero mai accadute alla razza umana.

Rimase immobile, solo, sulla piazza, e ascoltò il rumore furioso delle macchine che si avvicinavano. Vide, verso occidente, il bagliore dei loro fari. Dal fiume saliva una brezza fredda, che faceva agitare le maniche della sua giacca.

In tutto il mondo, pensò. In tutto il mondo, quella notte vi sarebbero state macchine urlanti e folle scatenate, e gente in fuga.

Infilò la mano in tasca e sentì la forma e il peso della pistola che era caduta dalla borsetta di Harriet. Le sue dita la strinsero… ma non era quello il modo di combatterli, si disse.

C’era un altro modo di combatterli: un modo lungimirante. Isolarli e soffocarli nella loro mediocrità. Dare loro ciò che volevano… un pianeta pieno di persone che erano soltanto normali. Un pianeta pieno di persone che potevano stare soltanto lì, ad ammucchiarsi e a marcire… senza conoscere mai lo spazio, senza raggiungere mai le stelle, senza andare mai in nessun posto e senza fare mai nulla. Come un uomo che passasse la vita su di una sedia a dondolo sotto un portico, in un paesino morente.

Senza reclute venute dall’esterno, fra cento anni l’Amo avrebbe incominciato a barcollare, e fra un altro secolo si sarebbe bloccato. Perché i para degli altri pianeti avrebbero reclutato gli uomini dell’Amo, si sarebbero sparsi per il mondo per recuperare i loro simili.

Ma cento anni più o meno non avevano importanza, perché la razza umana sarebbe stata al sicuro su altri pianeti, impegnata a costruire la vita e la civiltà che sulla Terra le erano state negate.

Si mosse per attraversare la piazza e per dirigersi verso le colline. Doveva lasciare il villaggio prima che arrivassero quelle macchine.

E ancora una volta sarebbe stato solo, sul suo cammino. Ma adesso non era più così solo, perché aveva uno scopo. Uno scopo, si disse con un improvviso brivido di orgoglio, che si era dato da solo.

Raddrizzò le spalle nel vento gelido e si mosse a passo più deciso. Perché aveva da fare. Molte cose da fare.

Qualcosa si mosse nell’ombra degli alberi, sulla sinistra. E Blaine, scorgendo quel movimento con un angolo della mente, girò di scatto su se stesso.

Il movimento venne verso di lui, lentamente, con qualche incertezza.

«Shep?» «Anita!» gridò lui. «Piccola, stupida Anita!»

Lei uscì correndo dall’oscurità, fu fra le sue braccia.

«Non ho voluto,» disse. «Non ho voluto andarmene senza di te. Sapevo che saresti tornato.»

Blaine la strinse a sè e si chinò a baciarla e non vi fu più niente nel mondo, più niente nell’universo, tranne loro due. C’era sangue e lillà e la stella scintillante e il vento sulla collina e loro due, e nient’altro.

Eccetto l’urlare delle macchine che sfrecciavano giù per la strada.

Blaine si scostò di colpo.

«Corri!» gridò. «Corri, Anita!»

«Come il vento!» disse lei.

Corsero via.

«Sulla collina!» disse lei. «C’è una macchina, lassù. L’ho portata là appena si è fatto buio.»

A metà del pendio si fermarono e si volsero a guardare.

Le prime fiamme incominciarono a levarsi correndo nell’oscurità del villaggio, e grida di rabbia futile salivano nell’aria. Colpi di arma da fuoco echeggiavano sinistri, strappati via dal vento.

«Stanno sparando alle ombre,» disse Anita. «Non c’è niente, laggiù. Neppure i cani e i gatti. I ragazzi se li sono portati via tutti.»

Ma in molti altri villaggi, pensò Blaine, in molti altri posti, c’erano ben altro che ombre. C’erano il fuoco e gli spari e il fumo delle armi e la corda annodata e il coltello insanguinato. E poteva anche esserci il fruscio di passi rapidi e una figura buia profilata contro il cielo e un ululato sulle colline.

«Anita,» chiese, «esistono davvero i lupi mannari?»

«Sì,» gli disse lei. «I tuoi lupi mannari sono laggiù.»

Ed era vero, pensò Blaine. Le tenebre della mente, lo squallore del pensiero, la vacuità dello scopo. Quelli erano i lupi mannari del mondo.

Voltarono le spalle al villaggio e continuarono a salire il pendio.

Dietro di loro le fiamme dell’odio si levarono più alte e più scottanti. Ma davanti a loro, sulla vetta della collina, le stelle lontane splendevano in una sicura promessa.

FINE