Fredric Brown
Pi nel cielo
Roger Jerome Phlutter, per il cui assurdo nome non offro giustificazione alcuna, se non il fatto che è genuino, era, all’epoca degli avvenimenti qui narrati, un impiegato che sgobbava parecchio all’Osservatorio Cole.
Era un giovanotto non particolarmente brillante, anche se sbrigava i suoi compiti quotidiani con impegno ed efficienza. Studiava calcolo a casa, un’ora ogni sera, e sperava, un giorno, di diventare astronomo capo in qualche importante osservatorio.
Comunque sia, il nostro resoconto degli avvenimenti sulla fine di marzo dell’anno 1987 deve cominciare proprio con Roger Phlutter, per l’ottima e sufficiente ragione che lui, fra tutti gli uomini della Terra, fu il primo ad osservare l’aberrazione stellare.
Vi presento Roger Phlutter.
Alto, piuttosto pallido perché passava troppo tempo al chiuso, lenti spesse con montatura di tartaruga, capelli scuri tagliati corti alla maniera degli anni Ottanta, abbigliato né troppo bene né troppo male, fumava un po’ troppe sigarette…
Alle cinque meno un quarto di quel pomeriggio, Roger era impegnato in due operazioni simultanee. Una consisteva nell’esaminare con un microcomparatore a sfarfallio una lastra fotografica presa la sera prima, d’una porzione della costellazione dei Gemelli; l’altra, nel valutare se, coi tre dollari che gli restavano della paga della settimana prima, poteva osare una telefonata a Elsie per chiederle di uscire con lui da qualche parte.
Non c’è dubbio che un qualunque giovanotto normale abbia condiviso in qualche momento della sua vita la seconda occupazione di Roger Phlutter, ma non tutti certamente avranno saputo non dico il funzionamento, ma l’esistenza stessa d’un microcomparatore a sfarfallio. Perciò distogliamo il nostro sguardo da Elsie e puntiamolo sui Gemelli.
Un microcompratore a sfarfallio, dunque, è un dispositivo ottico in cui s’inseriscono due lastre fotografiche dell’identica porzione di cielo, scattate in tempi diversi. Queste lastre vengono sovrapposte con grande attenzione, e l’operatore può mettere a fuoco nell’oculare, prima l’una e poi l’altra, alternativamente, a gran velocità, grazie a un otturatore. Se le due lastre sono identiche, questa manovra con l’otturatore non rivelerà niente, ma se uno dei punti sulla seconda lastra ha una posizione anche poco diversa da quella che occupava sulla prima, richiamerà l’attenzione su di sé dando l’impressione di saltare avanti e indietro ad ogni scatto dell’otturatore.
Roger, dunque, azionò l’otturatore, e uno dei punti diede un balzo. Anche Roger diede un balzo. Provò di nuovo, dimenticandosi del tutto per il momento — come anche noi — di Elsie, e il punto fece un altro balzo. Balzò di quasi un decimo di secondo d’arco.
Roger si raddrizzò e si grattò la testa. Accese una sigaretta, la mise giù nel portacenere, e guardò di nuovo nell’oculare. Il punto tornò a balzare avanti e indietro, quando azionò l’otturatore.
Harry Wasson, che faceva il turno serale, era appena entrato nello studio e stava appendendo il soprabito.
— Ehi, Harry! — esclamò Roger. — C’è qualcosa che non va con questo acchiappafarfalle.
— Sì? — fece Harry.
— Sì. Polluce si è spostata d’un decimo di secondo.
— Sì, — annuì Harry. — È giusto l’effetto di parallasse. Trentadue anni-luce — la parallasse di Polluce è giusto zero virgola uno zero uno. Poco più di un decimo di secondo. Così, se la tua lastra di paragone è stata presa all’incirca sei mesi fa, quando la Terra era sul lato opposto dell’orbita, è press’a poco giusto.
— Ma, Harry, la lastra di paragone è stata presa l’altra sera. Le due lastre sono separate soltanto da ventiquattr’ore.
— Sei matto.
— Guarda tu stesso.
Non erano ancora le cinque di sera, ma Harry Wasson passò sopra, magnanimo, alla piccola questione di principio e si sedette davanti al microcomparatore. Manipolò l’otturatore, e Polluce compiacente fece il balzo.
Non c’era alcun dubbio che si trattasse di Polluce, poiché era di gran lunga il punto più luminoso sulla lastra. Polluce è una stella di magnitudo 1,2, una delle stelle più luminose del cielo, e senz’altro la più brillante dei Gemelli. E nessuna delle stelle più deboli intorno ad essa si era minima mente mossa.
— Uhm, — disse Harry Wasson. Si accigliò, e tornò a guardare. — Una di queste due lastre ha la data sbagliata, ecco tutto… Controllerò subito, per prima cosa.
— Queste lastre non hanno la data sbagliata, — ribatté, cocciuto, Roger. — Le ho datate io stesso.
— Questa è la miglior prova, — gli disse Harry. — Vai a casa. Sono le cinque. Se Polluce si è spostata di un decimò di secondo da ieri sera, io la rimetterò al suo posto per te.
Così, Roger se ne andò.
Per qualche ragione si sentiva a disagio, come se non avesse dovuto farlo. Qualcosa l’inquietava, anche se non riusciva a inquadrare il problema… Decise di tornare a casa a piedi, invece di prendere l’autobus.
Polluce era una stella fissa, non poteva essersi spostata d’un decimo di secondo in ventiquattro ore.
— Vediamo… trentadue anni-luce, — disse Roger tra sé. — Un decimo di secondo d’arco… Diamine, sarebbe un movimento di parecchie volte più veloce della luce. Il che é, senza alcun dubbio, una sciocchezza!
Ma lo era davvero?
Stasera non se la sentiva di studiare o di leggere. Ma bastavano tre dollari per portar fuori Elsie?
Le tre palle d’un negozio di pegni si stagliavano davanti a lui, e Roger cedette alla tentazione. Impegnò l’orologio, poi telefonò a Elsie. Cena e spettacolo?
— Ma si, certo, Roger.
Così, fino a quando non la riaccompagnò a casa, all’una e trenta, riuscì a dimenticarsi dell’astronomia. Niente di strano in ciò. Sarebbe stato assai strano se fosse riuscito a ricordarsela.
Ma l’inquietudine che l’aveva agitato qualche ora prima, subito tornò a invaderlo non appena restò solo. Sulle prime, non ricordò il perché. Sapeva che proprio non se la sentiva di tornarsene a casa, non ancora.
Il bar all’angolo era ancora aperto, così entrò a bere qualcosa. Si stava scolando il secondo bicchiere, quando ricordò. Ne ordinò un terzo.
— Hank, — disse, rivolto al barman. — Conosci Polluce?
— Polluce chi? — chiese Hank.
— Lascia perdere, — disse Roger. Bevve un altro bicchiere e riprese a scervellarsi. Sì, aveva commesso un errore da qualche parte. Polluce non poteva essersi mossa.
Uscì dal bar e s’incamminò verso casa. C’era quasi arrivato quando gli venne in mente di alzare gli occhi su Polluce, non che ad occhio nudo sarebbe riuscito a cogliere uno spostamento d’un decimo di secondo, ma era curioso.
Alzò lo sguardo, si orientò col Leone, poi trovò i Gemelli — Castore e Polluce erano le uniche stelle visibili, dei Gemelli, poiché non era una notte particolarmente favorevole per osservare il cielo. Erano lassù, non c’era dubbio, ma gli sembrò che fossero un po’ più staccate del solito. Assurdo, perché sarebbe stato uno spostamento di gradi, non di minuti o di secondi.
Le fissò per parecchi istanti, poi si voltò e fissò l’Orsa Maggiore sul lato opposto. Smise di camminare e si arrestò. Chiuse gli occhi e li riaprì lentamente, con cautela. L’Orsa non gli appariva affatto giusta. Era storta. Pareva che ci fosse più spazio fra Alioth e Mizar, nel timone del carro, che fra Mizar e Alkaid. Phecda e Merak, in fondo all’Orsa, erano molto più vicine, rendendo più acuto l’angolo tra il fondo e il labbro. Assai più acuto.
Incredulo, tracciò una linea immaginaria dalle indicatrici, Merak e Dubhè, fino alla Polare. La linea s’incurvava. Doveva incurvarsi: se fosse andata dritta, avrebbe mancato la Polare di quattro o cinque gradi addirittura.
Il respiro un po’ affannoso, Roger si tolse gli occhiali e li ripulì con molta cura col fazzoletto. Se li reinfilò sul naso, ma l’Orsa era sempre storta.