— Bah! — esclamò Roger, a voce alta.
— Ha detto qualcosa, signore? — chiese la cameriera. Roger l’osservò per la prima volta. Era piccola, bionda e rotondetta. Roger le sorrise.
— Dipende dalla struttura spaziotemporale in base alla quale si considera la cosa, — dichiarò, in tono grave. — La difficoltà è puramente epistemologica.
Per compensarla, diede alla cameriera una mancia superiore al dovuto, e se ne andò.
Si rese conto che il fisico più eminente che c’era al mondo ne sapeva, di ciò che stava accadendo, ancora meno della gente della strada. La gente sapeva che le stelle fisse si muovevano, o non si muovevano. Era ovvio che il professor Hate non sapeva neppure questo. Sotto una cortina fumogena di definizioni concettose, Hale aveva lasciato intendere che le stelle facevano, invece, tutte e due le cose.
Roger alzò gli occhi al cielo, ma solo poche stelle, fioche nella luce del primo crepuscolo, erano visibili attraverso l’alone creato dalla miriade di insegne al neon e di finestre illuminate. Decise che era ancora troppo presto.
Si fece un drink in un bar vicino, ma non gli parve che avesse il giusto sapore, per cui non lo finì. Non avrebbe saputo dire cosa c’era che non andava, ma era stordito dalla mancanza di sonno. Ma era troppo nervoso ed eccitato per aver voglia di andare a dormire, perciò decise di continuare a camminare finché le gambe non gli fossero letteralmente piegate per la stanchezza. Chiunque l’avesse colpito in testa con uno sfollagente gli avrebbe reso un segnalato servizio, ma nessuno se ne prese la briga.
Roger continuò a camminare, e dopo un po’ s’infilò nell’atrio d’uno sfarzoso cinematografo, vividamente illuminato, e si sedette appena in tempo per vedere le sequenze finali dell’ultimo dei tre lungometraggi in programma. Seguirono parecchi annunci pubblicitari che riuscì a guardare senza vederli.
— Ora, — disse una voce dallo schermo, — vi presentiamo una speciale trasmissione via cavo, in diretta, del cielo di Londra, dove adesso sono le tre di notte.
Lo schermo si oscurò e vi comparve una miriade di puntolini che erano le stelle. Roger si sporse in avanti per guardare e ascoltare attentamente. Quella si annunciava come una trasmissione di fatti concreti, non di vuote e pompose parole.
— La freccia, — disse lo schermo, quando una freccia comparve su di esso, — sta indicando la Stella Polare… la quale, adesso, si trova a dieci gradi di distanza dal polo celeste, in direzione dell’Orsa Maggiore. La stessa Orsa Maggiore, il Gran Carro, non è più riconoscibile come un carro, ma adesso la freccia indicherà le stelle che prima lo formavano.
Roger seguì senza fiato la freccia e la voce.
— Alkaid e Dubhè, — spiegò la voce. — Le stelle fisse non sono più fisse, ma… — L’immagine cambiò all’improvviso mostrando l’interno d’una cucina moderna, — … la qualità e l’eccellenza dei Forni Stella non cambia. I cibi cucinati col sistema dell’induzione supervibratoria hanno come sempre un eccellente sapore. I Forni Stella sono insuperati.
Con calma, Roger Phlutter si alzò, raggiunse la corsia, e s’incamminò verso lo schermo tirando fuori di tasca il temperino. Saltò agilmente sul basso palcoscenico. I colpi coi quali squarciò lo schermo non furono rabbiosi, bensì attenti e metodici, concepiti per fare il massimo danno col minimo sforzo. Quando due robusti usceri l’afferrarono, il danno era già fatto, e completo. Non fece nessuna resistenza né a loro, né alla polizia alla quale lo consegnarono. Un’ora più tardi, al tribunale notturno, ascoltò senza scomporsi le accuse contro di lui.
— Colpevole o non colpevole? — chiese il magistrato che presiedeva la corte.
— Vostro Onore, questa è una pura questione di epistemologia, — rispose Roger, in tutta serietà. — Le stelle fisse si muovono, ma Fiocchini Tostati, la miglior prima colazione del mondo, rappresenta ancora la pseudo-posizione d’un quantum-integrale di Diedrich in rapporto al settimo coefficiente di curvatura!
Dieci minuti più tardi dormiva come un ghiro. In una cella, è vero, ma pur sempre come un ghiro. La polizia lo lasciò li, poiché si erano resi conto che aveva bisogno di dormire…
Fra le altre tragedie di minor portata di quella notte, si può menzionare il caso dello schooner Ransagansett, al largo della costa californiana. Molto al largo della costa californiana! Un’improvvisa burrasca l’aveva spinto molte miglia fuori rotta, ma quante miglia fossero il comandante poteva soltanto indovinarlo.
Il Ransagansett era un vascello americano con un equipaggio tedesco, battente bandiera venezuelana, affittato per trasportare alcoolici da Ensenada, nella Bassa California, fin su alla costa canadese, naturalmente di contrabbando. Il Ransagansett era un vecchio vascello, con quattro motori e una bussola assai poco affidabile. Durante i due giorni di tempesta, il suo apparato radio — anno 1955 — era impazzito e Gross, il secondo, malgrado le sue indubbie capacità, non era stato in grado di ripararlo.
Ma adesso, a ricordare la tempesta era rimasta soltanto una leggera foschia che le ultime raffiche di vento stavano portando via. Hans Gross, impugnando un antico astrolabio, se ne stava in attesa sul ponte. Intorno a lui c’era la più totale oscurità, poiché la nave procedeva senza luci per evitare le pattuglie costiere.
— Si sta schiarendo, signor Gross? — chiamò il capitano da sotto.
— Zi, zignore. Zi sda sghiarendo in fredda.
Nella cabina, il capitano Randall tornò alla sua partita di blackjack col terzo ufficiale e l’addetto alle macchine. L’equipaggio — un vecchio tedesco chiamato Weiss, con una gamba di legno — era addormentato a poppa del serbatoio dell’acqua, dovunque questo si trovasse.
Passò una mezz’ora. Un’ora. Il capitano stava perdendo forte con Helmstadt, l’addetto alle macchine.
— Signor Gross! — chiamò.
Non vi fu nessuna risposta. Il capitano chiamò di nuovo, e di nuovo, e continuò a non ottenere risposta.
— Solo un attimo, miei cari amici, — disse al terzo ufficiale e al macchinista, e salì la scaletta del boccaporto fino al ponte.
Gross era là in piedi, immobile, gli occhi al cielo e la bocca spalancata. La foschia era del tutto scomparsa.
— Signor Gross, — ripeté il capitano Randall.
Il primo ufficiale non rispose. Davanti agli occhi del capitano, si limitò a ruotare lentamente sui tacchi, prima a destra e poi a sinistra.
— Hans! — latrò il capitano Randall. — Cosa diavolo le sta succedendo? — Poi anche lui alzò lo sguardo.
A prima vista, il cielo appariva del tutto normale. Niente angeli in volo, né il ronzio dei motori di un aereo. Il Carro, si disse il capitano, girando lentamente su se stesso, proprio come Gross, dov’era il Gran Carro?
Ma d’altra parte, dov’era anche tutto il resto? Non gli riuscì di riconoscere una sola costellazione, pur voltandosi da ogni lato. Niente falce del Leone. Niente cintura di Orione. Niente corona del Toro.
Cosa anche peggiore, c’era un gruppo di otto stelle luminosissime che potevano anche essere una costellazione, poiché erano disposte, grosso modo, a formare un ottagono. Soltanto che… una simile costellazione non era mai esistita, lo sapeva poiché aveva viaggiato anche intorno al Capo di Buona Speranza e al Capo Horn. Forse… ma no! Non c’era nessuna Croce del Sud! Stordito, il capitano Randall tornò ad avvicinarsi alla scaletta del boccaporto.
— Signor Weisskopf, — chiamò. — Signor Halmstadt. Venite sul ponte.
Salirono e guardarono. Nessuno disse niente per un po’.
— Spenga i motori, signor Halmstadt, — disse il capitano. Halmstadt fece il saluto — prima non l’aveva mai fatto — e scese di sotto.
— Kapitano, defo sfegliare Weiss? — chiese Weisskopf.