Sali su quello più vicino.
— Casa Bianca, — disse al tassista. — Quanto ci vuole?
— Dieci minuti.
Il professor Hale cacciò un nuovo sospiro di sollievo e si lasciò andare contro i cuscini. Stavolta non ripiombò nel sonno. Adesso era del tutto sveglio. Ma chiuse gli occhi, per riflettere sulle parole più adatte a spiegar chiaramente le cose.
— Ci siamo, signore.
Il professor Hale cacciò tra le mani del tassista una banconota e balzò fuori dalla macchina, infilandosi nell’edificio. Non era come si aspettava. Ma c’era un banco e corse lì.
— Devo vedere il Presidente, presto. È d’importanza vitale!
Il professor Hale sgranò gli occhi. — Il Presidente degli… ehi, dica, che edificio è questo? E di che città?
L’impiegato inarcò ancora di più le sopracciglia. — Questo è l’Hotel Casa Bianca, Seattle, Washington.
Il professor Hale svenne. Si svegliò in un ospedale tre ore più tardi. Allora era mezzanotte, ora del Pacifico. E questo significava che erano le tre del mattino sulla costa orientale. In effetti, era stata mezzanotte esatta a Boston e a Washington, D.C., quand’era disceso di corsa dal Washington Special a Seattle. Il professor Hale corse alla finestra e agitò i pugni, tutti e due, contro il cielo. Un gesto futile.
A oriente, tuttavia, la tempesta di neve era cessata al cader della notte, lasciando una leggera bruma nell’aria. Al che il pubblico, ormai sensibilizzato alle stelle, tempestò gli uffici meteorologici per chiedere quanto sarebbe durata la nebbia.
— È prevista una brezza dall’oceano, — si sentirono rispondere. Anzi, è già cominciata. Nel giro di un’ora o due avrà spazzato via la nebbiolina.
Alle undici e dieci il cielo di Boston era perfettamente sgombro.
Migliaia e migliaia di persone affrontarono il gelo pungente e si riversarono fuori, fissando col naso all’insù la sfilata di quelle stelle non più eterne. Ciò che videro… era del tutto incredibile.
Cominciò a udirsi un mormorio sbalordito, che lentamente crebbe d’intensità, finché, un quarto a mezzanotte, la cosa fu certa, al di là di ogni dubbio. Il mormorio tacque per un attimo, poi crebbe, sempre più fragoroso, raggiungendo l’apice a mezzanotte. Gente diversa reagisce in modo diverso, naturalmente, come ci si può aspettare. Vi furono risate, come pure indignazione, cinico divertimento come pure uno sconvolto orrore. Vi fu perfino ammirazione.
Ben presto, in certi punti della città, vi fu un movimento concertato da parte di coloro che conoscevano un certo indirizzo di Fremont Street. Un movimento convergente, in parte a piedi, in parte su veicoli pubblici.
Cinque minuti prima di mezzanotte, Rutherford R. Sniveley se ne stava seduto, in attesa, dentro la sua casa. Si negava il piacere di guardare fino a quando, all’ultimo momento, la cosa non fosse stata completata. Sentì urlare il suo nome. Ma continuò ad attendere, cocciutamente, fino a quando l’orologio non ebbe battuto il dodicesimo rintocco. Poi uscì sul terrazzo. Per quanto bramasse guardare in alto, per prima cosa si costrinse ad appuntare lo sguardo giù in strada. La folla turbinante si accalcava laggiù, rabbiosa. Ma lui, per quella folla, provava soltanto disprezzo.
Anche le macchine della polizia, arrivate a gran velocità, si stavano fermando laggiù, e riconobbe il sindaco di Boston che usciva da una di esse, insieme al capo della polizia. E con ciò? Non c’era nessuna legge che prevedesse quel caso. Poi, dopo essersi negato il supremo piacere abbastanza a lungo, girò gli occhi verso il cielo silenzioso, ed eccola là. Le quattrocentosessantotto stelle più luminose che formavano, in cielo, la scritta
USATE
IL SAPONE
SNIVELY
La sua soddisfazione durò soltanto un secondo. Poi il suo volto cominciò ad assumere una tinta purpurea apoplettica.
— Mio Dio! — farfugliò il signor Sniveley. — C’è un errore di ortografia!
Il suo volto divenne ancora più purpureo, poi, come un albero schiantato dal fulmine, crollo all’indietro attraverso la portafinestra.
Un’ambulanza portò in fretta il magnate caduto al più vicino ospedale, ma qui si accertò subito che era già morto — per apoplessia.
Ma, ortografia sbagliata o no, le stelle tornate fisse mantennero la posizione che avevano assunto a mezzanotte in punto. Il movimento aberrante era cessato, e le stelle tornate immobili compitavano: usate il sapone snively!
Fra le molte spiegazioni offerte da tutti i più svariati personaggi che professavano una qualche conoscenza di astronomia o di fisica, nessuna fu più acuta — o più vicina alla verità — di quella avanzata da Wendell Mehan, presidente dell’emerita Società Astronomica di New York.
— È ovvio che il fenomeno è un gioco della rifrazione, — disse il dottor Mehan. — È del tutto impossibile che una qualunque forza concepita da un uomo possa muovere una stella. Perciò le stelle occupano ancora il loro vecchio posto nel firmamento.
— La mia ipotesi è che Sniveley abbia elaborato un modo per rifrangere la luce delle stelle, in qualche punto all’interno dell’atmosfera terrestre, o appena sopra ad essa, così da fornire l’impressione che abbiano cambiato la loro posizione. Con ogni probabilità ciò è ottenuto grazie alle onde radio o qualcosa di simile — forse non con una sola trasmittente, ma con quattrocentosessantotto singoli apparecchi disseminati sulla superficie di tutta la Terra. Anche se non riusciamo a capire come ciò possa esser fatto, non è impossibile che i raggi luminosi possano venir deviati da un campo d’onde allo stesso modo in cui opera un prisma, o le forze gravitazionali.
«Dal momento che Sniveley non era un grande scienziato, immagino che la sua scoperta sia stata empirica, più che secondo logica — una scoperta accidentale, insomma. È anche possibile che, se il suo proiettore verrà scoperto, ciò non consenta agli scienziati di capirne il segreto, non più di quanto un selvaggio sia in grado di comprendere il funzionamento d’un semplice apparecchio radio, smontandolo.
«Dico questo perché mi sembra ovvio il fatto che questa particolare rifrazione è un fenomeno tetradimensionale, altrimenti i suoi effetti sarebbero puramente locali e limitati a una sola porzione del globo. Soltanto nella quarta dimensione e possibile che la luce venga rifratta in questo modo…
C’erano molte altre cose, ma è meglio saltare all’ultimo paragrafo:
— Non è possibile che questo effetto sia permanente… in altre parole, che duri anche quando avrà cessato di funzionare il proiettore di onde che lo causa. Presto o tardi la macchina di Sniveley verrà trovata e spenta, oppure si consumerà e si guasterà da sola. Senza dubbio contiene parti delicate che un giorno si bruceranno, come fanno le valvole delle nostre radio…
La bontà dell’analisi del dottor Mehan fu dimostrata, due mesi e otto giorni più tardi, quando la Compagnia dell’Energia Elettrica di Boston interruppe, per il mancato pagamento della bolletta, l’erogazione della corrente a una casa situata al 901 di West Rogers Street, a dieci isolati di distanza dalla dimora di Sniveley. Nel medesimo istante dello spegnimento, eccitatissimi resoconti dall’emisfero notturno della Terra portarono la notizia che le stelle erano ritornate, di colpo, alle loro precedenti posizioni.
Si condussero indagini in base alle quali si appurò che un certo Elmer Smith, il quale aveva comperato quella casa sei mesi prima, corrispondeva perfettamente alla descrizione di Rutherford R. Sniveley: senza alcun dubbio, perciò, Elmer Smith e Rutherford R. Sniveley erano la stessa persona.
All’ultimo piano di quella casa fu trovato un complicatissimo impianto comprendente 468 antenne radio, ognuna di diversa lunghezza, e tutte rivolte in differenti direzioni. Cosa strana, la macchina alla quale erano collegate non era più grande d’una trasmittente da radioamatore anche se, in base ai dati della compagnia elettrica, consumava una quantità esorbitante di corrente.