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E tutto è protetto: ogni elaboratore, ogni dato, ogni campione. Ovunque vi sono guardie che osservano, annotano, riferiscono, e sorvegliano tutti coloro che sembrano non conformarsi agli ideali della Santità/Unità/Immortalità, inclusi gli accoliti che impazziscono, e gli Ammuffiti, membri di una setta, i quali, stanchi dei fastidi e delle pene dell’esistenza, desiderano soltanto la fine, la distruzione totale della Santità, della Terra, dei mondi, e della vita stessa: la fine di tutti gli uomini e di tutte le donne dell’elenco eterno.

Ogni giorno, in mille cappelle, dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba, gli elaboratori leggono a voce alta l’elenco, e quando hanno terminato, ricominciano, col loro mormorio infinito, a ripetere i nomi dell’umanità intera, dal padre Adamo al piccolo Dom.

E mentre il mormorio continua, Rillibee siede a fissare l’anziano, ascoltando distrattamente i nomi annunciati dall’accolito; poi indossa di nuovo gli auricolari, coperti da uno spesso strato di polvere, come se da molto tempo nessuno si curasse più di entrare nella cappella ad ascoltare la litania, e sente altri nomi: — Violet Wilberforce. Nick En Ching. Herbard Guston. — I nomi di tutti coloro che sono vissuti, tranne lui: Rillibee Chime non ha mai sentito pronunciare il proprio nome dalla voce meccanica, e forse non sarà registrato nell’elenco prima di aver terminato i dodici anni di servizio ed essersene andato.

Tra breve, Rillibee dovrà recarsi col corredo clericale alla Stanza 409 del livello meno tre. Ma per il momento resta seduto in assoluta tranquillità, soffocando la propria solitudine, a recitare per se stesso, con voce umana, e ascoltandone il suono con la massima attenzione, un nome che nessuno pronuncia mai in quell’inferno vacuo: — Rillibee Chime. Rillibee Chime. Rillibee Chime.

Quando smontò dalla capsula nel centro di accoglienza sotterraneo, Rigo Yrarier non fu del tutto sorpreso nel sentirsi accapponare la pelle in superstiziosa repulsione. Non si era recato lì di propria volontà, ma perché zio Carlos gli aveva inviato un messaggio, pregandolo di venire. Zio Carlos era lo scandalo della famiglia, un autentico scheletro nel confessionale: l’apostata che molto tempo prima aveva abbandonato la religione degli antichi cattolici, per poi diventare nientemeno che Prelato di tutto quel… quello! Guardando attorno, Rigo cercò di definire quello: quell’alveare, quell’empio formicaio. Infatti, all’esterno della stanza di vetro in cui egli si trovava, circolavano figure simili ad insetti anonimi, tutte ugualmente abbigliate ed incipriate.

Tramite il messaggio, zio Carlos lo aveva convocato per compiere un’opera caritatevole, ma Rigo aveva pensato che neppure questo fosse un motivo sufficiente per recarsi alla Santità: la carità era affare di Marjorie, non suo. Inoltre non approvava le attività della moglie, perché sapeva che la filantropia era del tutto inutile. Era impossibile salvare persone che erano troppo stupide per salvarsi da loro stesse, e ciò, per quanto lo riguardava, valeva anche per la Santità.

Tuttavia era accaduto qualcosa di sorprendente: padre Sandoval, che senza dubbio aveva le sue buone ragioni, lo aveva esortato ad accogliere la richiesta di zio Carlos. Probabilmente desiderava ricevere ogni informazione possibile sulla Santità, perché così spesso il clero cattolico riceveva il permesso di visitarla, come esso stesso consentiva al demonio di partecipare alla messa.

Nel guardare attorno in cerca di qualcuno che gli spiegasse dove andare, Rigo cercò di non manifestare i sentimenti che provava, e di cui era perfettamente consapevole: non soltanto repulsione superstiziosa, ma anche collera e ostilità. Il suo disagio non fu alleviato né dall’aspetto spettrale della guida incipriata che entrò da una porta sibilante e s’inchinò in segno di saluto, né dalla lunga camminata per corridoi labirintici, oltre cappelle deserte che si sussegguivano l’una all’altra, dalle quali proveniva il mormorio degli elenchi di nomi letti in eterno.

Sarebbe stato molto meglio, pensò Rigo, se avessero inventato non soltanto elaboratori per recitare, ma anche elaboratori per ascoltare, o più semplicemente ne avessero lasciato uno soltanto a ripetere i nomi per sempre, in assoluto isolamento. Così non si sarebbe ottenuto nulla di meno che con quell’incessante mormorio che faceva accaponare la pelle e dolere la testa.

Senza dubbio anche il nome di Rigo, e quello di Marjorie, e quelli dei loro figli, erano recitati assieme a tutti gli altri nomi, giacché sfuggire agli archivi della Santità era impossibile persino alle famiglie che, come gli Yrarier e i Westriding, compilavano moduli di esenzione per non esservi incluse, spiegando che appartenevano a una fede diversa, e desideravano che anche i loro discendenti fossero esentati, e non credevano nell’immortalità artificiale, né nel massimo che la Santità potesse offrire, ossia la speranza della resurrezione del corpo.

Senza dubbio non erano servite a nulla le veeementi proteste del padre di Rigo contro le arroganti pretese della Santità, né gli sfoghi isterici di sua madre, né la disapprovazione gentile ma ferma di padre Sandoval. Tutti sapevano che i moduli di esenzione servivano soltanto a consentire ai missionari santificati di individuare i dissidenti, e perseguitarli fino ad ottenere campioni cellulari. Qualunque strada affollata era adatta allo scopo: bastava una rapidissima punzonatura, simile a un morso, o un pizzicotto, o una puntura. I missionari erano come topi: una furtiva moltitudine che spiava, registrava nomi, raccoglieva campioni cellulari, affinché tutti diventassero parte di quel… quello!

Quello: la Santità/Unità/Immortalità. Rigo leggeva queste parole ovunque: sulle pareti, sui pavimenti, sulle maniglie delle porte. E sulle superfici troppo piccole per contenere le parole intere, era impressa la sigla: S/U/I, S/U/I, S/U/I.

— Che finzione blasfema — bisbigliò Rigo fra sé e sé, citando le parole di padre Sandoval. Cercò di rallentare l’andatura per non pestare i calcagni della sua guida. Ad ogni passo si rammaricava di aver risposto alla convocazione di quel traditore di zio Carlos, che si sarebbe comportato già abbastanza gravemente se fosse rimasto un semplice eretico, senza diventare anche Prelato, e così causare imbarazzo a tutti gli antichi cattolici, ovunque.

Nel fermarsi, la guida incappucciata gettò un’occhiata a Rigo, come per accertarsi che fosse abbigliato in modo conveniente; poi bussò a una porta incassata nella parete, la aprì, e con un gesto invitò il visitatore ad entrare. La stanza era piccola e assolutamente spoglia, a parte tre sedie. L’accolito varcò la soglia a sua volta e si appollaiò su una sedia, anonimo come un chiodo nuovo di zecca, le mani posate sul corredo clericale.

La sedia che si trovava presso una porta socchiusa era occupata da un vecchio curvo e cadaverico, cogli occhi spenti e infossati, le mani bendate e tremanti, il quale emanava un putrido fetore. Con voce tremula, chiese: — Rigo?

— Zio? — Rigo non fu affatto sicuro di riconoscerlo, perché non lo vedeva da decenni. — Zio Carlos? — Ma pensò che il diffondersi del tremito dalle mani alla testa del vecchio si potesse interpretare come un cenno di assenso. Poi, quando la mano bendata gliela indicò vagamente, sedette sulla sedia vuota. Suo malgrado provò pietà, nel riconoscere la morte rinviata troppo a lungo.

Intanto, l’accolito apprestò il corredo clericale alla trascrizione.

— Ragazzo mio — sussurrò il vecchio Prelato. — Ti chiediamo di partire per un lungo viaggio. È importante, Rigo: si tratta di una questione di famiglia. — E si addossò allo schienale della sedia, tossendo debolmente.