Выбрать главу

In quel primo giorno di caccia autunnale, Diamante bon Damfels, figlia minore di Stavenger, si unì a coloro che lentamente si radunavano alla prima superficie, tutti mormoranti e assonnati, come se fossero rimasti a giacere svegli per tutta la notte, in ascolto, ad attendere un richiamo che non si era udito. Tra i cacciatori immobili, portando bicchieri piccoli come ditali su vassoi scintillanti, scivolavano le serve provenienti dal villaggio vicino, le quali parevano prive di gambe, nelle lunghe gonne bianche a campana, e avevano le teste nascoste dalle pieghe delle sgargianti cuffie ricamate.

Fra Emeraude e Amethyste, chiamate dai famigliari Emmy ed Amy, ma da tutti gli altri «le padrone bon Damfels», Dimity era impeccabile nel completo da caccia, con la testa che già le doleva tanto la chioma era tirata indietro affinché neppure una ciocca sfuggisse dal cappellino nero. Le sue sorelle maggiori avevano i risvolti della giacca rossi, perché avevano accumulato sufficiente esperienza da entrare a far parte della comitiva di caccia. Invece, Dimity aveva i risvolti neri come le ombre che le incupivano gli occhi. Pur scorgendo tali ombre, Emmy ed Amy fingevano di non accorgersene, perché nessuno poteva permettersi di fingersi malato o di indulgere alla codardia, né poteva consentirlo ad altri membri della famiglia.

— Non preoccuparti — disse Emeraude con voce strascicata, offrendo il miglior consiglio di cui fosse capace. — Presto ti guadagnerai i colori di caccia. Ricorda soltanto quello che ti ha insegnato il maestro di equitazione. — Intanto, un muscolo le guizzò più volte sulla guancia, come una rana incatenata che cercasse di saltare.

— Ma, Emmy… — Dimity rabbrividì, mentre le ombre si torcevano nei suoi occhi. Non voleva dirlo, eppure fu incapace di tacere: — Mamma ha detto che non sono obbligata…

Priva di emozioni come un bicchiere, Amethyste rise, e fu come un breve fremito, privo di allegria: — È ovvio che non sei obbligata, sciocchina! Nessuna di noi è obbligata! Persino Sylvan e Shevlok non erano obbligati!

Nell’udire il proprio nome, Sylvan bon Damfels si volse a guardare le sorelle. Accorgendosi che Dimity era con Amy ed Emmy, si aggrondò. Con una parola di scusa ai compagni, attraversò rapidamente il prato circolare grigio pallido, costeggiando le fontane d’erbe scarlatte e ambrate che ne costituivano il centro: — Cosa fai qui? — chiese a Dimity, con occhi sfavillanti di collera.

— Il maestro di equitazione ha detto alla mamma…

— Non sei ancora pronta! Non lo sei affatto! — Sylvan era fatto così: diceva quello che pensava, pur sapendo di andar contro all’opinione comune; anzi, secondo alcuni lo faceva proprio per questo. Inoltre si divertiva ad attirare l’attenzione in tal modo, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Per lui, la verità era la verità, e tutto il resto era la più tenebrosa eresia. In certi casi, però, era cosi umano da aver qualche dubbio nel decidere quale fosse la verità.

— Suvvia, Sylvan! — intervenne Amethyste, facendo deliziosamente il broncio, con le labbra che, secondo un complimento che aveva ricevuto, sembravano frutta mature. — Non essere così severo. Se fossi tu a decidere, nessuno parteciperebbe alla Caccia, tranne te.

— Se fosse per me, Amy — ringhiò Sylvan — nessuno caccerebbe, incluso me. Cosa ne pensa nostra madre?

— È stata una decisione di papà — spiegò Dimity. — Ha pensato che sarebbe bello se guadagnassi presto i miei colori. Sono già più grande di quanto fossero Amy ed Emmy quando guadagnarono i loro. — Ciò detto, gettò un’occhiata a Stavenger, il quale, immobile fra gli esperti capocaccia, la osservava, aggrondato, magro ed ossuto, col grande naso aquilino che incombeva sulla bocca priva di labbra.

Sylvan posò una mano sulla spalla della sorella minore: — Per l’amor del cielo, Dim. Perché non gli hai detto, semplicemente, che non sei ancora pronta?

— Non ho potuto, Syl. Papà ha chiesto il parere del maestro di equitazione, secondo cui non potrei essere più pronta.

— Ma senz’altro voleva dire.

— So benissimo cosa voleva dire, per l’amor del cielo! Non sono stupida! Voleva dire che non sono molto brava e che non migliorerò mai.

— Non te la cavi poi tanto male — dichiarò Emeraude, per tranquillizzarla. — Per esempio, io ero molto peggio.

— Eri molto peggio da bambina — convenne Sylvan. — Però all’età di Dim eri molto meglio, come pure tutti noi altri. Ma ciò non significa che Dim sia obbligata.

— Insomma, volete smetterla tutti quanti di dirmi che non sono obbligata? — strillò Dimity, con le lacrime che le scorrevano sulle guance. — Mezza famiglia mi dice che non sono obbligata, e l’altra mezza che ormai sono pronta!

Quantunque fosse sul punto di gridare, Sylvan tacque e divenne improvvisamente dolce. Amava la sorellina. Era stato lui il primo a chiamarla Dimity; era stato lui ad assisterla quando si era ammalata; ed era stato lui, fanciullo tredicenne, a farla giocare, da bambina, prendendola in spalla e portandola a spasso per i corridoi di Klive. L’aveva sempre coccolata e si era sempre preoccupato per lei. Ormai aveva ventotto anni, ma non aveva cessato di preoccuparsi per lei: la considerava ancora una bambina, benché avesse quindici anni. — Cosa preferisci fare? — chiese teneramente, allungando una mano a sfiorare la piccola fronte umida sotto la falda del cappellino nero. Con la chioma tirata indietro, raccolta dietro la nuca, ella sembrava un ragazzino spaventato. — Cosa desideri, Dim?

— Ho fame, ho sete e sono stanca. Voglio tornare a casa, far colazione e dedicarmi allo studio della mia lezione settimanale di letteratura — pianse Dimity, a denti stretti. — Voglio partecipare a un ballo estivo e flirtare con Jason bon Haunser. Voglio fare un bel bagno caldo e poi sedere nel giardino dell’erba cucchiaio a guardare i picchi.

— Bene, allora. — cominciò Sylvan, subito interrotto dal suono del corno del capocaccia, proveniente dal Cancello della Muta: un fioco ta-wa, ta-wa, per avvertire i cavalieri senza turbare i veltri. — I veltri. — sussurrò, volgendosi. — Oh, Dio! è troppo tardi, Dim. — E si allontanò con passo incerto, improvvisamente silenzioso.

L’intera comitiva cessò di conversare e rimase avvolta nel silenzio. I volti divennero vacui, inespressivi, e gli occhi fissi. Girandosi tutt’intorno ad osservare i cacciatori pronti a montare in sella, Dimity rabbrividì. Lo sguardo di suo padre la spazzò come un vento gelido, senza neppure vederla. Persino Emmy ed Amy erano diventate remote, intoccabili. Sembrava che soltanto Sylvan, il quale era tornato fra i suoi compagni e la fissava, la vedesse e si preoccupasse per lei, come aveva già fatto tante altre volte.

Intanto, i cacciatori si schierarono secondo un ordine preciso: i più esperti, sulla semicirconferenza occidentale della prima superficie, e i meno esperti su quella orientale. Al suono del corno, le serve si erano dileguate come fiori bianchi soffiati dal vento sull’erba grigia. Dimity rimase quasi isolata al margine orientale del prato, guardando il sentiero che conduceva al massiccio cancello della estancia: Guarda il Cancello della Muta, ordinò mentalmente a se stessa, senza necessità. Guarda il Cancello della Muta.

Tutti guardarono, mentre il Cancello della Muta si apriva lentamente e i veltri uscivano a coppie, con le orecchie pendule, le lingue ciondolanti fra le robuste zanne d’avorio, e le code dritte, percorrendo il Viottolo dei Veltri, un ampio sentiero di bassa erba vellutata che cingeva la prima superficie, poi, varcato il Cancello di Caccia, proseguiva ad occidente, attraverso i vasti giardini esterni. Appena si avvicinava al margine della prima superficie, ogni coppia di veltri si divideva: un veltro deviava a sinistra, e l’altro a destra. Così, formando due file, i veltri girarono intorno ai cacciatori, osservandoli con occhi rossi e ardenti come braci. Quindi riformarono le coppie e proseguirono verso il Cancello di Caccia.