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D’improvviso, Dimity provò dolore all’altra gamba, tuttavia cercò di non combatterlo e di non distrarsi, perché il maestro di equitazione le aveva detto: — Ma puoi far di meglio che distrarti: puoi adattarti al ritmo della cavalcata e non pensare a niente. Soprattutto, non turbare la cavalcatura e non attirare l’attenzione dei veltri. — Decisa a seguire scrupolosamente queste istruzioni, ella cercò dunque di non pensare a nulla e di sopportare la sofferenza.

Al simulatore, non era mai riuscita a non pensare, quindi fu sorpresa nel constatare quanto ciò fosse più facile in groppa a una vera cavalcatura: sembrava che un apposito dispostivo svuotasse senza posa la sua mente, come una sorta di gomma per cancellare. Ma poiché era una sensazione che non le piaceva affatto, fece per scrollare la testa, irritata, rammentando appena in tempo che occorreva conservare una assoluta immobilità. Così turbò il proprio silenzio interiore. Volutamente, cercò di nuovo di distrarsi pensando al suo nuovo abito da ballo, di cui rivide ogni balza, ogni ricamo; e dopo un poco sentì svanire il dolore alla testa.

Cavalca, esortò mentalmente se stessa. Cavalca, cavalca, cavalca. Sostituendo il silenzio mentale con questa cantilena, ella dimenticò l’abito da ballo, e continuò semplicemente a cavalcare, assecondando i movimenti della creatura, ad occhi chiusi. La spina dorsale era una colonna di dolore, la bocca era arida: fu costretta a dar fondo alle proprie forze per reprimere il desiderio disperato di urlare.

D’un tratto, la comitiva si fermò su un lungo crinale. Quasi contro la propria volontà, Dimity apri gli occhi per osservare la vallata, che non era dissimile dal Giardino dell’Oceano, tranne il fatto che le onde di erbalta avevano sfumature ambrate o bruno-grigiastre, e le isole erano costituite da boschetti di veri e propri alberi: gli unici che esistessero su Grass. Erano alberi palustri, che crescevano nei pressi delle sorgenti, ed erano il rifugio delle volpi. Era là che quei demoni zannuti vivevano e si nascondevano, quando non si muovevano furtivamente tra le erbe per uccidere i puledri.

— Non bisogna mai pronunciare la parola «puledri» quando le cavalcature possono sentire — aveva raccomandato il maestro di equitazione. — È soltanto un termine che usiamo noi. Semplicemente, supponiamo che esistano puledri, anche se non ne abbiamo mai visti. Perciò è meglio non dir nulla. Anzi, è sempre meglio evitar di parlare, quando le cavalcature possono sentire.

Per questo Dimity taceva, come pure tutti gli altri cavalieri, ognuno interamente assorto in se stesso, pallido per la concentrazione. Se non l’avesse vista, Dimity non avrebbe mai creduto che Emeraude potesse essere così immobile e taciturna: probabilmente non lo avrebbe creduto neppure la mamma. E Shevlok! Tranne quando Stavenger era presente, Shevlok parlava sempre con qualcuno, oppure fumava sigari di importazione, giacché non si accontentava di nulla di meno del miglior tabacco di Shafne. In presenza del padre, invece, se ne stava in disparte cercando di non attirare l’attenzione, anche se così, con questo tentativo di nascondersi o mimetizzarsi, finiva proprio col farsi notare.

La Caccia stessa era impressionante per la sua quiete: era silenziosa come i luoghi più isolati quando, nel cuore dell’inverno, erano deserti e ricoperti da uno spesso strato di ghiaccio.

Nel concentrarsi per mantenere la respirazione lenta e profonda, Dimity si sentì di nuovo svuotare la mente e si ribellò, pensando al pranzo che sarebbe seguito alla Caccia: gallina fritta nell’olio con spezie d’importazione e macedonia, anzi, torta di frutta secca, perché era ancora troppo presto per la frutta fresca.

In quel momento il gruppo ripartì, per scendere nella vallata, verso un buio boschetto. Allora Dimity rammentò un altro consiglio del maestro di equitazione: — Gli alberi sono così straordinari che ti sarà difficile reprimere l’emozione, però non dovrai sospirare né fare commenti, naturalmente. Dovrai tenere la bocca chiusa, e non allungare il collo, non guardare attorno, non cambiare posizione. — Comunque, ella aveva già visto alberi per migliaia di ore, sugli schermi del simulatore.

Così rimase in silenzio, guardando innanzi, verso la torreggiante vegetazione che la sovrastava, con le fronde pesanti a nascondere il cielo. Ad un tratto, il mondo intero parve invaso da un crosciante diguazzar di zoccoli. L’odore dell’acqua della palude era molto diverso da quello della pioggia: non era semplicemente umido, bensì fradicio, marcio, eppure fecondo. Senza rumore, Dimity dischiuse le labbra per respirare con la bocca, abituandosi intanto a quell’odore insolito, che le faceva desiderare di starnutire, tossire o ansimare.

Pur udendo il segnale, Dimity comprese di cosa si trattava soltanto quando i veltri si lanciarono innanzi, sparpagliandosi in tutte le direzioni, annusando il suolo. Poco a poco, il rumore della loro corsa si spense. Come il maestro di equitazione aveva spiegato, la storia tramandava che nei tempi antichi si era usato incitare i veltri gridando: — Stanatela, ragazzi miei! Stanatela! — Come se qualcuno avesse potuto gridare davveri «ragazzi miei» ai veltri!

Lo stridulo, ritmico gracidio di una rana pulsò ripetutamente nel bosco; s’interruppe per un periodo tanto lungo che Dimity credette che fosse cessato; quindi riprese. Con la coda dell’occhio, la ragazza scorse una rana, bianca e tremante fra l’erba.

Un veltro emise un profondo, echeggiante aroo, e Dimity ebbe un tuffo al cuore, mentre l’ululato si ripeteva più e più volte. Quando gli ululati di un altro veltro, di mezzo tono più alti, si unirono a quelli del primo, ella ebbe l’impressione che un coltello le ferisse le orecchie. Poi l’intera muta scoppiò in una spaventevole cacofonia: aroo, aroo. Strillando in risposta, le cavalcature si addentrarono ancor più nel bosco: ormai stanata, la volpe sarebbe stata braccata senza scampo. Ad occhi chiusi, Dimity tenne duro, mordendosi la lingua e le guance, disposta a compiere ogni sforzo pur di restare consapevole, dritta in sella.

Proprio in quel momento, pensò: Questo è il Boschetto Darenfeld, che un tempo era parte della estancia dei bon Darenfeld. Sto cavalcando al seguito dei veltri proprio qui, nel Boschetto Darenfeld, dove morì la mia amica Janetta bon Maukerden! Aprì la bocca per gridare, ma, con uno sforzo di volontà, riuscì a trattenersi. Non devo parlarne, pensò. In realtà, nessuno mi ha detto che Janetta morì qui. Nessuno lo ha detto. Nessuno ha detto niente, tranne pronunciare il suo nome e poi sussurrare: «Il Boschetto Darenfeld.» E quando ho chiesto spiegazioni, mi hanno risposto: «Taci, taci. Non parlarne, non chiedere.» Ne sanno più di me. Non posso dire niente che già non sappiano.

Intanto, i veltri correvano e latravano, la cavalcatura li seguiva, e Dimity resisteva, ad occhi di nuovo chiusi. Non poteva fare altro che tener duro, restare dove si trovava, non cadere, tacere, sopportare il dolore, continuare la Caccia.

Così la Caccia prosegue e il tempo trascorre. Per ore la volpe fugge, e per ore i cavalieri la inseguono. Dimity finisce col dimenticare chi è e dove si trova. Il passato e il futuro cessano di esistere. Esiste soltanto un’eternità di zoccolio, frusciar di erbe, latrar di veltri, e lontano, innanzi, ululati di volpe. Trascorrono così molte ore, o forse giorni. Sì, forse i cacciatori braccano la preda per giorni: Dimity non saprebbe precisarlo.