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Nulla segna il passare del tempo. La sete, sì, e la fame, e la stanchezza, e il dolore, sì. Fin dalle prime ore del mattino, la ragazza è perseguitata da una sete ardente, una fame straziante, un dolore che le martoria il midollo delle ossa come una malattia. La bocca non potrebbe essere più secca, né lo stomaco più vuoto, né la sofferenza potrebbe essere maggiore. Finalmente, ella capisce che tutto ciò durerà per sempre e cessa di lottare. Ogni preoccupazione è cancellata dalla sua mente assieme al senso del tempo. Non esistono più né il prima né il dopo: nulla, nulla.

Poi, la cavalcatura rallenta, si ferma, e Dimity, senza volerlo, esce dal doloroso intontimento in cui è sprofondata: apre gli occhi.

I cacciatori si stanno addentrando lentamente nella fosca cattedrale d’ombra di un altro boschetto. Alcuni raggi di sole cadono da un varco nel fogliame sopra di loro a trafiggere l’oscurità. Un raggio luminoso investe Stavenger, in piedi sulla groppa della cavalcatura, con la fiocina in pugno, pronto a colpire. Quando dai rami dell’albero sopra di lui giunge uno strillo di furore, Stavenger scaglia la fiocina e la funicella si srotola come un filo dell’oro più puro.

Echeggia un orribile ululato, questa volta di agonia.

Un veltro balza in alto ad afferrare con le fauci la cordicella, subito imitato da alcuni altri. In breve, i veltri tirano giù dall’albero la volpe, sempre latrando, senza mai tacere un istante. Fra loro cade una creatura grossa e scura, con occhi sfavillanti e zanne possenti. Poi si odono soltanto gli strilli della preda e i rumori delle fauci che sbranano.

Ancora una volta, Dimity chiude gli occhi, troppo tardi per non vedere il sangue scuro che sgorga come una fontana tra i veltri accalcati, e sente. Sente un empito di piacere, così profondamente intimo che la induce ad arrossire e le mozza il fiato, le fa tremare le gambe strette alla cavalcatura, e le squassa tutto il corpo in uno spasmo estatico.

Tutt’intorno a lei, altri occhi si chiudono, altri corpi tremano. Tutti, tranne Sylvan, il quale rimane eretto in sella, gli occhi fissi al sanguinoso scempio, i denti snudati in un silente ringhio di sfida, il volto affatto privo di espressione. Vede Dimity tremare spasmodicamente ad occhi chiusi e, per non guardarla, distoglie il viso.

Soltanto quando la comitiva lasciò la Foresta Nera e ritornò a Klive riprendendo il Sentiero Verdazzurro, Dimity riaprì gli occhi. Allora il dolore divenne tale che, non riuscendo più a sopportarlo in silenzio, ella gemette, a malapena, senza riflettere. Subito un grande veltro dalle chiazze purpuree si girò a scrutarla con occhi di fiamma, tutto lordo di sangue, suo proprio o della volpe. In quel momento la ragazza si rese conto che quegli stessi occhi l’avevano guardata più e più volte durante la battuta, anche quando la volpe era caduta dall’albero proprio in mezzo alla muta, e lei aveva provato quella sensazione.

Abbassò lo sguardo alle proprie mani che serravano le redini e non alzò più la testa.

All’arrivo al Cancello di Caccia, Dimity non fu in grado di smontare da sola, ma Sylvan corse subito ad aiutarla, con tale prontezza che probabilmente nessun altro cacciatore si accorse della debolezza della ragazza. Tuttavia se ne rese conto il veltro dai rossi occhi fiammeggianti nell’oscurità che si addensava, il quale poco dopo se ne andò, assieme al resto della muta e a tutte le cavalcature. Dal cancello, il capocaccia suonò piano il corno e gridò: — La Caccia è finita! Siamo tornati! Rientriamo.

Dal balcone, udendo il suono attutito del corno, Rowena comprese che gli animali se n’erano andati e i cacciatori attendevano di essere serviti. Con le mani strette l’una all’altra e la bocca aperta, ella si sporse dalla balaustrata, mentre un servo apriva dall’interno il Cancello della Muta e gli stanchi cacciatori entravano: il maestro di caccia e gli altri uomini in giacca rossa, le donne abbigliate di nero. Coi calzoni imbottiti, queste ultime appaiono grosse e goffe come rane nell’oscurità. I pantaloni bianchi erano ormai chiazzati di sudore, mentre i fiocchi da caccia, impolverati e sferzati dalle alte erbe, avevano perduto il primitivo candore. I servi attendevano, pronti a servire acqua e carne arrostita. Già da alcune ore i bagni erano colmi di vapore, ognuno riscaldato dalla sua piccola caldaia. I cacciatori, tenendo coppe d’acqua e spiedini di carne, si sparpagliarono, ciascuno diretto alla propria camera. Ansimante, quasi sul punto di gridare, ormai incapace di reprimere la paura contro la quale aveva lottato durante tutta la lunga giornata, Rowena cercò fra i cacciatori finché scorse la snella figura di Diamante, la quale si appoggiava al braccio di Sylvan. Allora finalmente pianse, e cercò di ritrovare la voce che aveva quasi perduto nella convinzione che Dimity non fosse tornata.

— Dimity — chiamò Rowena, sottovoce, sporgendosi il più possibile dalla balustrata, perché non voleva essere udita da Stavenger, né da nessun altro aristocratico integralista. Poi salutò con la mano, quando la ragazza alzò lo sguardo.

Con un cenno della testa, Sylvan indicò una porta laterale. Pochi minuti più tardi, Dimity entrò nella stanza della madre e fu accolta da Salla con una esclamazione di disgusto: — Oh, come sei sporca! Sei proprio lurida, ragazza mia! Sembri un migerer! Togliti la giacca e il fiocco. Vado subito a prenderti la tunica, così potrai sbarazzarti di tutta quella roba lercia.

— Sì, sono sporca, Salla, però sto bene — rispose la ragazza, pallida come la luna, respingendo debolmente le mani solerti della cameriera.

— Dimity.

— Sì, mamma?

— Da’ a Salla i tuoi vestiti, cara. Vieni, ti aiuto a togliere gli stivali.

In breve, con qualche sforzo, gli alti stivali neri furono sfilati. — Puoi restare qua a fare il bagno, e intanto raccontarmi com’è andata la Caccia. — Con un cenno d’invito, Rowena attraversò la stanza lussuosa e aprì la porta del bagno piastrellato, adorno di mosaici, dove la vasca era già piena di acqua fumante. — Puoi usare il mio unguento da bagno. Ti piaceva tanto, quando eri piccola! Ti senti indolenzita?

Invano Dimity cercò di rispondere con un sorriso. Non poté fare altro che impedire il tremito delle proprie mani nel togliersi la biancheria intima e lasciarla cadere in un mucchio sul pavimento.

Soltanto quando la ragazza fu immersa fino al collo nell’acqua fumante, Rowena domandò: — Raccontami cos’è successo.

— Non so — mormorò Dimity. — Non è accaduto nulla. — L’acqua leniva poco a poco il dolore. Ella soffriva ad ogni movimento, eppure, nel liquido caldo, questa sofferenza che sentiva nel più profondo delle ossa si tramutava quasi in piacere. — Non è successo niente.

Gli occhi lustri di lacrime, Rowena batté un piede sul pavimento per sfogare l’esasperazione, ma senza veemenza: — Hai avuto difficoltà a montare?

— No, davvero.

— E avevi già visto la tua cavalcatura?

Improvvisamente guardinga, Dimity aprì gli occhi a scrutare la madre: — La cavalcatura? Credo che fosse una di quelle che avevo già visto, magari al pascolo, vicino al prato di erba corta dove andavo sempre a giocare con Sylvan. — Pensando che ciò significasse qualcosa, continuò a scrutare la madre.

Quantunque ricordasse di aver montato, alla sua prima battuta, una cavalcatura che l’aveva osservata quando era bambina, Rowena si limitò ad annuire: — Dove siete andati?

— In un bosco. Credo che fosse il Boschetto Darenfeld. Voglio dire, nella vallata.

Di nuovo Rowena annuì, ricordando gli scuri alberi torreggianti che nascondevano il cielo, il suolo tappezzato di muschio e fiorellini, e il chioccolio dell’acqua che scorreva sotto il muschio. Ma quando rammentò anche Janetta, l’amica di Dimity, l’amante di Shevlok, fu costretta a interrompere i ricordi: — Avete stanato una volpe?