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Dopo avere permesso a Donald di osservare attentamente l’oggetto per alcuni istanti, Wing padre prese di tasca un piccolo cacciavite e cominciò a svitare le viti, che si lasciarono togliere senza difficoltà. Donald non aveva un cacciavite, ma poté toglierne alcune con le dita: in due o tre minuti il padre riuscì a staccare alcune piastre di copertura e a mostrare l’interno del blocco di metallo. Don si chinò a osservare, e fece un fischio.

«Che cos’è, papà? Certamente non si tratta di una radio normale!»

«No» rispose il padre «ma sembra effettivamente una radio di genere sconosciuto. Non so che tipo di onde usi, e neppure la sua portata, o la sua fonte di alimentazione… anche se ho qualche mia idea sulla portata e l’alimentazione. È facilissimo usarla, comunque. Penso che chi l’ha fabbricata l’abbia fatto apposta, perché c’è soltanto l’interruttore che vedi. Non so però se intendeva che l’interno fosse così facilmente accessibile.»

«Ma da dove arriva?» domandò il figlio. «Chi l’ha fabbricata? Come hai fatto a trovarla?»

«È una storia un po lunga, ed è successa, come ti ho già detto, prima che tu nascessi… Avevo appena finito l’università, dove mi ero interessato a lungo di questa parte del paese; decisi dunque di venire a vederla di persona, e finii per trovarmi qui sulle montagne. Partii da Helena, e mi recai a piedi fino a Flathead, lungo il Parco del Ghiacciaio, poi a ovest lungo il confine per raggiungere Kootenai, e alla fine tornai indietro seguendo il fiume, oltre il traghetto di Bonner, fino ai Cabinets. Non è una delle più belle escursioni che si possano fare, ma vidi un mucchio di bei posti e mi divertii a camminare.

«Attraversavo il ruscello che abbiamo seguito pochi minuti fa, una mattina, poco dopo essere partito, quando sentii giungere dalla montagna un indescrivibile fracasso. Non conoscevo bene la zona, e confesso di essermi un po allarmato; ma avevo il fucile e mi dissi che in fin dei conti ero andato laggiù per soddisfare la mia curiosità. Mi diressi verso l’origine del rumore.

«Quando uscii dagli alberi, mi accorsi che quel rumore assomigliava a una sorta di linguaggio; perciò gridai alcune parole a mia volta, anche se non avevo la minima idea di cosa mi stessero dicendo. A tutta prima non ci fu risposta; solo quella voce fortissima che gridava le sue parole incomprensibili e stranamente regolari. Alla fine, poco al di sopra della posizione in cui ci troviamo adesso, in una zona aperta, scorsi finalmente l’origine dei rumori; e quasi allo stesso tempo il rumore cessò.

«E laggiù, in un punto aperto, dove risultava visibile da tutte le direzioni, c’era un oggetto che assomigliava a un siluro per sommergibili: a quell’epoca tutti li conoscevano, perché nella prima guerra mondiale avevano avuto un ruolo dominante. In quegli anni, la fantascienza non era ancora di moda, e Dio sa che le mie conoscenze di fisica erano quasi nulle, ma fin dall’inizio trovai difficile credere che qualcuno avesse portato laggiù quell’oggetto. Poi, quando lo esaminai con attenzione, capii che la mia teoria del siluro non era molto plausibile.

«Per prima cosa, non aveva le eliche, e neppure gli alettoni direzionali. Quell’oggetto era largo un metro e lungo sei, che è una misura che, a quanto ne so io, può andare bene per un siluro, ma l’unica interruzione sulla superficie era un’apertura che si vedeva sul lato, proprio sotto quella che doveva essere la punta, e che era spalancata come se si fosse trattato di un portello per sganciare le bombe. Io provai a dare un’occhiata dentro, anche se non mi fidai di infilarci il braccio o la testa, e vidi che l’interno della parte anteriore era costituito da un unico vano, che era completamente vuoto e dal quale giungeva un forte odore di solfo.

«Per poco non mi venne un colpo apoplettico quando l’oggetto si mise a parlarmi, questa volta con un volume di voce molto più basso: comunque, feci un bel salto, e poi mi misi a insultarlo in tutte le lingue che conoscevo, per lo spavento che mi aveva fatto prendere. Mi occorsero un minuto o due per riprendere il controllo di me stesso, e alla fine capii che i suoni emessi dall’oggetto erano un goffo tentativo di imitare le mie parole di prima. Per accertarmene, provai a pronunciare altre parole, una alla volta; quasi tutte vennero ripetute con buona approssimazione. La creatura che mi rispondeva non era capace di pronunciare la P e la B, ma per il resto se la cavava abbastanza bene.

«Ovviamente, o c’era qualcuno chiuso in fondo al siluro, o il siluro conteneva una radio, e qualcuno se ne serviva per parlare a distanza. La prima ipotesi mi pareva poco probabile, dato lo spaventoso volume sonoro emesso da quell’oggetto; e non dovetti aspettare molto perché me ne giungesse un’ulteriore conferma.

«Avevo già preso la decisione di accamparmi laggiù, anche se era ancora presto. Ed ero occupato a montare la tenda, pronunciando di tanto in tanto una parola all’indirizzo del siluro, che mi rispondeva con la sua voce rimbombante, allorché vidi comparire un altro di quegli oggetti, proprio sopra di me. Cominciò a parlare, più piano dell’altro, quando era ancora a una certa distanza sopra la mia testa. Evidentemente, le ignote creature che lo comandavano a distanza non volevano che mi spaventassi e che scappassi via. Il secondo siluro si posò accanto al primo, lasciando dietro di sé una sottile nuvola di fumo azzurro che a tutta prima mi parve lo scarico dei suoi razzi di propulsione.

«Vidi poi che si trattava solo di una perdita di gas, che usciva dalle fessure di un portello simile a quello del primo siluro: quando il portello si aprì, ne uscì una nube molto più spessa. Il particolare mi rese molto cauto, e fu una fortuna che mi fossi tenuto lontano, perché il metallo era talmente caldo che si sentiva sulla pelle la sua radiazione a un metro di distanza. All’origine doveva essere ancora più caldo, ma non saprei quanto. La puzza di solfo rimase fortissima ancora per qualche tempo dopo l’atterraggio del secondo siluro, ma alla fine scomparve.

«Dovetti aspettare qualche tempo perché l’oggetto si raffreddasse al punto di potermi avvicinare senza pericolo. E quando mi avvicinai, scoprii che questa volta il vano anteriore non era vuoto. C’era un contenitore che assomigliava a un cestino per pescatori, suddiviso in tanti compartimenti. Quelli posti da una parte erano tutti pieni di cianfrusaglie, e quelli dalla parte opposta erano vuoti. Dopo qualche tempo mi azzardai a toccare lo strano contenitore, non appena giudicai che si fosse raffreddato a sufficienza.

«Lo afferrai e lo portai fuori alla luce del sole, e a quel punto vidi un particolare che fino a quel momento non avevo notato: i compartimenti pieni erano chiusi da dei coperchietti trasparenti, di una sostanza simile a cristallo, e non si potevano aprire; tra le due parti del contenitore c’era un collegamento molto complesso, che funzionava in questo modo: occorreva mettere qualcosa in un compartimento vuoto e chiudere il suo coperchio per poter aprire il vano corrispondente posto sull’altro lato. I posti disponibili non erano molti, sei o sette, e v’infilai quello che avevo in tasca… un foglio di carta del mio quaderno d’appunti, un pezzo di granito, una sigaretta, campioni di licheni presi dalle rocce lì attorno… e prelevai l’intero contenuto dei compartimenti chiusi. Una delle cose che vi trovai era un blocco di platino e metalli analoghi, che pesava quasi un chilo.

«Giunto a quel punto, mi fermai per un attimo, perché volevo riflettere bene sull’accaduto. Per prima cosa, era chiaro che il siluro proveniva da un altro pianeta. L’unica nave spaziale di cui avevo mai sentito parlare era il proiettile descritto nel romanzo di Giulio Verne, certo, ma sul nostro pianeta non c’è nessuno che manda a spasso siluri volanti, privi di visibili mezzi di propulsione e carichi di quelle che, come capivo benissimo senza bisogno di chiederlo in giro, erano pepite di metallo prezioso; ammesso poi che qualcuno lo faccia, non credo che annunci la cosa strombazzandola con l’altoparlante, in una lingua assolutamente sconosciuta, a un volume tale da sentirla a due chilometri di distanza.