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«C’è da prendersi più che un congelamento» rispose Drai, con convinzione. «Eppure, poco tempo fa, quando osservavate di persona quel mondo, non mi sembravate così desideroso di avvicinarvi.»

«Allora non m’era ancora venuta la curiosità» rispose Ken.

La conversazione s’interruppe per qualche tempo, e Feth Allmer continuò a spostare impercettibilmente le levette che regolavano la spinta dei motori della sonda. La navicella, come aveva riferito Ken quando aveva parlato con Drai, era già entrata nell’orbita del pianeta, ma doveva ancora ridurre la sua velocità relativa, che ammontava a molti chilometri al secondo. Allmer navigava con l’aiuto di alcuni strumenti collocati sulla stazione relè: un calcolatore dello sfasamento dell’eco e un gradiente direzionale, che ritrasmettevano fino al suo quadro di comandi le loro misurazioni; la sonda era ancora troppo lontana dalla Terra perché si potesse utilizzare l’altimetro a riflessione. Per alcuni minuti, Ken osservò in silenzio i quadranti, interpretando come meglio sapeva i movimenti delle lancette e i gesti di Allmer. Alla fine, un brontolio di soddisfazione del meccanico lo informò, più chiaramente di qualsiasi strumento, che il raggio era stato agganciato. Con un tentacolo, il meccanico spinse a fondo scala una delle levette.

«Non capisco perché non installano su queste sonde le attrezzature necessarie per dare loro una buona accelerazione» brontolava Allmer a bassa voce. «Cosa scommettete che usciremo dalla portata del raggio, prima che si riesca a uguagliare la velocità di rotazione del pianeta? Con nove decimi del loro volume dedicati ai motori e agli accumulatori, le nostre sonde potrebbero raggiungere elevate velocità anche senza ricorrere ai motori iperspaziali. Ma questi modelli da pochi soldi…» S’interruppe. Ken non rispose, poiché non capiva se l’altro voleva davvero avere una risposta. Del resto, Allmer era troppo intelligente perché quel tipo di banalità fosse spontaneo, e occorreva riflettere su ogni risposta, anche per semplici motivi di cautela.

Ma, a quanto pareva, il meccanico era eccessivamente pessimista: in pochi minuti riuscì a portare la sonda in posizione verticale rispetto alla superficie del pianeta e a iniziare la manovra di discesa. Lo stesso Ken era in grado di capirlo dai quadranti; ed entro breve tempo anche l’altimetro a riflessione cominciò a trasmettere dati. Lo strumento cominciava a essere efficace a una distanza uguale al diametro di Sarr, circa diecimila chilometri, e Ken si sedette vicino all’operatore non appena notò che l’altimetro si muoveva. Non dovette fare molta strada.

Il suo personale quadro di strumenti, preparato in fretta da Allmer nei giorni precedenti, era ancora immobile. Gli indicatori di pressione erano ancora fermi allo zero, e la temperatura era bassa: a quanto pareva, si era già congelato anche il sodio. Da molte ore non c’erano cambiamenti: evidentemente, la sonda era in equilibrio termico con le radiazioni del sole lontano. Ken guardò con attenzione la lancetta dell’altimetro, che stava scendendo, e per un attimo si domandò quale sarebbe stato il primo effetto dell’ingresso nell’atmosfera. Un aumento di pressione, o una variazione di temperatura?

Per la cronaca, non rilevò alcun effetto. Fu Feth Allmer a notare l’aumento di pressione, prima che si fossero mossi gli indicatori di Ken; e l’investigatore ricordò che il portello era chiuso. C’erano state delle perdite in precedenza, ovviamente, ma la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno era stata molto maggiore. A quanto pareva, attorno alla sonda c’era già una certa pressione atmosferica, anche alla temperatura indicata dal quadrante in quel momento.

«Aprite il portello di carico, per favore» disse Ken, nell’udirne l’annuncio da Allmer. «Così possiamo controllare se c’è qualche elemento che brucia spontaneamente.»

«Un minuto. Sto scendendo troppo velocemente. Se l’aria è densa, a questa velocità c’è il rischio che il portello si stacchi.»

«Non potete decelerare più in fretta?» domandò Ken.

«Sì, adesso. Un momento solo. Non intendo perdere tutta la giornata nella manovra, e ormai la superficie dista soltanto una trentina di chilometri. Da questo momento in poi, sono ai vostri ordini.»

Obbediente, la lancetta dell’altimetro rallentò la sua marcia sulla scala numerata. Ken cominciò a riscaldare il campione di titanio: era quello che aveva la temperatura di fusione più alta; inoltre, era quasi certo che l’atmosfera del pianeta conteneva azoto molecolare: almeno uno, fra i suoi esperimenti, doveva dare un esito positivo.

Quando la sonda giunse a otto chilometri dalla superficie, la piccola fornace era al calore bianco, almeno a giudicare dalla quantità di luce che colpiva la fotocellula posta nel compartimento di carico. La pressione atmosferica era misurabile, anche se insufficiente secondo i criteri sarriani, se ci si poteva fidare del tubo a gas; e Feth gli aveva detto di avere una tabella con le correzioni: l’aveva preparata calibrando sulla parte oscura del pianeta un certo numero di quegli strumenti.

«Possiamo rimanere fermi a questa altezza per qualche momento?» domandò Ken. «Voglio far reagire questo titanio con i gas dell’atmosfera, se possibile. La pressione atmosferica è sufficiente, e l’altezza è abbastanza grande perché non ci scorga nessuno.»

Allmer gli mostrò le indicazioni della fotocellula. «Il portello è aperto, e la fornace è molto luminosa. Vi consiglio di chiuderlo, anche se questo impedirà l’ingresso dell’atmosfera esterna. Una luce come quella, a una tale distanza dal terreno, dev’essere visibile per decine di chilometri.»

«Non ci avevo pensato» disse Ken, stupito di non averlo fatto. Rifletté per qualche istante, poi disse: «Sì, chiudiamo il portello. Conosciamo la misura della pressione. Se si abbassa, vuol dire che il nostro campione reagisce con l’atmosfera.»

«Giusto» commentò Allmer, facendo scattare la levetta che chiudeva il portello. Attese in silenzio che Ken azionasse i comandi. Priva dello sfogo costituito dall’apertura, da cui usciva gran parte del calore prodotto, la temperatura all’interno del compartimento cominciò a salire: Ken si aspettava che salisse anche la pressione, ma vide con piacere che, invece, scendeva. Per controllare la sua ipotesi, ordinò ad Allmer di aprire il portello per poi richiuderlo immediatamente, e il risultato confermò le sue aspettative: la pressione ritornò al valore precedente, poi riprese ad abbassarsi. A quanto pareva, il titanio si combinava con qualche componente gassoso dell’atmosfera circostante, anche se la reazione non avveniva in modo sufficientemente violento perché la si potesse definire una combustione.

«Se siamo abbastanza lontani dal centro del raggio emesso dal radiofaro, scendiamo pure sulla superficie» disse infine l’investigatore. «Vorrei conoscere la percentuale di atmosfera che reagisce in questo modo, e perché la misura sia attendibile devo partire dalla massima pressione atmosferica disponibile.»

Feth Allmer gli rivolse l’equivalente di un cenno d’assenso.

«Siamo a circa tre chilometri dal centro» disse. «Posso scendere dove volete. Preferite che il portello sia chiuso o aperto?»

«Chiuso» rispose Ken. «Lasciamo che il campione si raffreddi un poco. In questo modo, dopo l’atterraggio, potremo ritornare alla pressione normale senza consumare tutto il nostro campione. Poi lo riscalderò di nuovo, con il portello chiuso, e misurerò la quantità d’aria consumata.»

Feth gli rivolse un cenno d’assenso; si udì un debole fischio quando la sonda cominciò a scendere in caduta libera. Come le altre che l’avevano preceduta, anche quella aveva microfono e altoparlante, e Allmer non si era preso la briga di toglierli. Sei chilometri, cinque, quattro, tre, due, uno… con indifferenza, il meccanico arrestò la discesa quando l’altimetro indicò cinquanta metri, e da quel momento in poi fece scendere la sonda a velocità molto ridotta, con grande cautela. A un certo punto, indicò con la punta del tentacolo un altro quadrante, e Ken, dopo qualche istante, capì cosa intendesse dire. La sonda era già giunta a un livello più basso di quello del radiofaro.