«Aspettate! L’altoparlante funziona?» gli disse, con un bisbiglio.
«Sì.» Feth prese un microfono e lo abbassò fino a portarselo a livello del torace, poi fece un passo indietro. Non voleva prendere parte a ciò che Ken intendeva fare. Sallman, però, ancora una volta era completamente assorbito dai misteri del Pianeta dei Ghiacci, e aveva dimenticato tutto il resto; non vedeva alcun motivo di lasciare quel luogo, anche se la loro attività era stata scoperta. Non gli venne neppure in mente di non rispondere all’indigeno che li aveva individuati. Avvicinò il diaframma vocale al microfono e imitò il «capo» di tanti anni prima, cercando di ripetere i suoni che giungevano dall’altoparlante.
Ma passò del tempo, e l’indigeno non rispose.
Dapprima, nessuno degli ascoltatori si preoccupò: pensarono che l’indigeno fosse rimasto solamente sorpreso. Pian piano, però, sulla faccia di Ken si disegnò un’espressione preoccupata, mentre Feth cominciò a guardarlo con un’aria da «io ve l’avevo detto».
«L’avete fatto fuggire» disse infine il meccanico. «Se metterà paura anche al resto della tribù, e la farà scappare, Drai non ne sarà affatto contento.»
All’improvviso, Ken si ricordò di un debole rumore che aveva udito prima che giungesse loro la voce dell’indigeno: uno scricchiolio. In precedenza, tutto preso dai suoi problemi di chimica, non l’aveva notato, ma ora si afferrò a quell’ancora di salvezza.
«L’abbiamo sentito avvicinarsi…» disse. «Lo stesso tipo di rumore fatto dalla sonda quando è scesa sul pianeta… e non l’abbiamo sentito allontanarsi. Dev’essere ancora nei pressi della sonda.»
«Sentito avvicinarsi? Oh… quel rumore! Come potete dire che era lui? Nessuno di noi stava attento ai rumori.»
«Cos’altro poteva essere?» obiettò Ken. La domanda era poco sportiva e Feth, invece di rispondere direttamente, fece un’altra domanda.
«Cosa aspetta, allora?» chiese. Ma il destino gli era contrario; Ken non ebbe bisogno di rispondergli. La voce umana si fece di nuovo udire, in timbro meno acuto. I due sarriani ebbero l’impressione di assistere alla ripetizione di una storia già vista. Ken ascoltò attentamente; Feth, che pareva avere dimenticato la sua risoluzione di dissociarsi dalle attività di Ken, si era avvicinato a sua volta al microfono e stava al suo fianco. La voce continuò, sotto forma di brevi sequenze, e non occorse molta immaginazione per capire che erano domande. Nessuna delle parole più lunghe era riconoscibile, anche se entrambi riconobbero il «no» degli indigeni, in varie occasioni. La creatura non pronunciò nessuno dei nomi di articoli commerciali che i sarriani conoscevano: Feth, che li sapeva tutti, cominciò a scriverli su un foglio, a uso del collega. Ken, alla fine, si spazientì, prese la lista incompleta e cominciò a leggerla ad alta voce, come meglio poté, fermandosi dopo ciascuna parola.
«Iridio… Fiatino… Oro… Osmio…»
«Oro!» lo interruppe il loro invisibile ascoltatore.
«Oro!» gli fece immediatamente eco Ken, parlando al microfono, e nello stesso istante si affrettò a chiedere a Feth, bisbigliando: «Che materiale è?»
Il meccanico gli disse il nome, bisbigliando anche lui, e Ken commentò: «Nella sonda ce n’è un campione, ma non possiamo darglielo. Mi serve per controllare eventuali tracce di corrosione. Comunque, l’ho fatto fondere pochi minuti fa, e l’indigeno non riuscirà a toglierlo dal crogiolo. Come si chiama il materiale che vi danno in cambio?»
«Tafacco» rispose il meccanico, senza riflettere… e mettendosi subito a riflettere, un istante dopo. Gli tornarono in mente le parole di Drai, le minacce contro chi forniva informazioni a Ken sulla «merce» che ricavavano dalla Terra; e, diversamente da Sallman Ken, sapeva che Laj Drai non scherzava. Al ricordo, si sentì addosso un prurito, come se già gli staccassero la pelle. Si chiese come poteva fare, per evitare che la notizia della sua sbadataggine giungesse ai piani superiori, ma non ebbe il tempo di trovare qualche sistema. Venne di nuovo interrotto dall’altoparlante.
L’esclamazione precedente era stata forte, ma questa fu una sorta di esplosione. La creatura doveva trovarsi con il suo apparato vocale a pochi centimetri dal microfono della sonda, e inoltre doveva avere usato la sua piena potenza vocale. Il ruggito echeggiò per diversi secondi nel laboratorio, e per poco non cancellò i tonfi successivi: un rumore che faceva pensare a un corpo duro che colpiva la superficie esterna della sonda. L’indigeno, per qualche misterioso motivo, pareva oltremodo agitato.
Quasi nello stesso istante, anche Ken emise un’imprecazione. Il termometro collegato con il campione d’oro aveva cessato di registrare.
«Quel maledetto selvaggio s’è rubato il mio campione!» ululò, e azionò la leva che chiudeva il portello del vano di carico. La leva si spostò, ma il portello non si mosse… o, almeno, non si accese la spia che indicava che il portello era chiuso. Non c’era possibilità di sapere se si era fermato in qualche posizione intermedia o se era completamente spalancato.
L’indigeno riprese a fare chiasso: più di prima, se la cosa era possibile. Ken riportò la leva sulla posizione di «aperto», attese un attimo, e l’azionò di nuovo in senso inverso. Questa volta, il portello si chiuse. I sarriani si domandarono se il servomotore del portello, che era relativamente poco potente, avesse causato qualche lesione alla creatura. Non parevano esserci dubbi sul motivo del precedente insuccesso; se ce ne fossero stati, i clamori raccolti dal microfono della sonda li avrebbero subito fatti svanire.
«Non credo che intendesse rubare» disse Feth, debolmente. «Dopotutto, avete ripetuto varie volte il nome della sostanza. Probabilmente ha pensato che volevate offrirgliela.»
«Forse avete ragione.» Ken ritornò al microfono. «Cercherò di fargli capire che oggi è giorno di mercato, e non una festa di matrimonio.» Fece un fischio, poi cominciò a gridare: «Tafacco! Tafacco! Oro… tafacco!» Feth rabbrividì in cuor suo. Quando avrebbe imparato a tener chiuso il diaframma?
«Tafacco! Oro… tafacco! Mi chiedo se queste parole significano davvero qualcosa per lui.» Ken si scostò leggermente dal microfono. «Potrebbe non essere una delle creature con cui commerciate. Dopotutto, adesso non ci troviamo nel solito posto.»
«Non è questo il problema principale!» Feth si serrò strettamente i tentacoli attorno al torso, come se si aspettasse la caduta di un fulmine nelle immediate vicinanze. La voce che aveva pronunciato l’ultima frase era quella di Laj Drai.
7
Roger Wing, età tredici anni, era tutt’altro che stupido. Non aveva alcun dubbio su dove si erano recati il padre e il fratello: anzi, quella loro escursione gli pareva estremamente interessante. Una breve chiacchierata con Edie fu sufficiente per dargli un’idea abbastanza precisa della durata della loro assenza; dieci minuti dopo essere ritornato da Clark Fork con la madre, si era già fatto una chiara idea sulla collocazione della «miniera segreta». In precedenza, quando si era recato laggiù, suo padre era sempre rimasto assente per vari giorni.
«Quella miniera, Edie, deve trovarsi entro una quindicina di chilometri dalla casa, in linea d’aria.» I due stavano dando da mangiare ai cavalli, e Roger, prima di parlare con la sorella, si era assicurato che i bambini più piccoli fossero occupati da qualche altra parte. «Ho parlato con Don per un paio di minuti, e ho capito benissimo che papà voleva mostrargli la miniera. Voglio vederla anch’io, prima che finisca l’estate. E ci riuscirò; sono pronto a scommetterlo.»
«Sei sicuro che sia giusto farlo?» domandò la sorella. «Dopotutto, se papà volesse farcela conoscere, ci porterebbe lui.»
«Non ha importanza. Ho il diritto di conoscere tutto quello che riesco a scoprire. Per di più, il nostro lavoro di sorveglianza può svolgersi meglio, se conosciamo il posto che dobbiamo sorvegliare.»