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Di conseguenza, il ragazzo risalì il fianco della valle che gli stava di fronte. Ormai era sceso il buio, sotto gli alberi, perché il sole era già calato al di là della vetta che gli stava davanti; e dopo qualche tempo Roger cominciò a chiedersi se davvero stesse seguendo la pista giusta. Si fermò, si guardò attorno, e, prima da una parte, poi dall’altra, vide tracce uguali a quelle che aveva seguito fino a quel momento. Perse subito la certezza che quelle davanti a lui fossero quelle giuste.

Cercò di proseguire, ma cominciò a essere preso dai dubbi. Ritornò sui propri passi, e raggiunse il ruscello, ma a vari metri di distanza dal punto dove aveva trovato le impronte. Perse alcuni minuti a cercarle, e quando le ritrovò comprese che non riusciva a seguire con esattezza neppure le proprie tracce.

Naturalmente, a quel punto avrebbe fatto meglio a tornarsene a casa di gran carriera. E, naturalmente, Roger non fece niente di simile. Mentre l’ombra continuava ad addensarsi sul fianco dei monti rivolto a est, Roger continuò a cercare altre tracce. Ogni cinque o sei minuti trovava qualcosa, e gli occorreva un po di tempo per decidere se era il caso di seguire la nuova direzione. E, dopo averla seguita, ogni volta trovava qualcosa d’altro. Pian piano, salì sempre più in alto, e alla fine si trovò sulla roccia nuda; a questo punto, dopo una breve riflessione, passò sull’altro versante della collina, dove c’era più luce, e riprese la sua ricerca. Dopotutto, si disse, i due uomini di cui seguiva le tracce si erano diretti a ovest.

Attraversò un’altra valle… questa volta. Il ruscello che stava al centro era asciutto, e non c’erano impronte di qualcuno che avesse fatto il salto… Giunse a poca distanza dalla cima di una collinetta più bassa delle altre, posta sull’altro lato, quando si rese finalmente conto che era tardi. Per tutto il giorno aveva continuato a cercare tracce con una sorta di monomania che gli aveva perfino impedito di sentire la fame. A costringerlo a pensare ad altro era adesso l’impossibilità di vedere i particolari del terreno dopo il tramonto del sole. Ricordò di non avere una lampada portatile, poiché non aveva previsto di rimanere fuori fino a quell’ora. Peggio ancora, non aveva cibo, non aveva acqua, e non aveva coperte. Il cibo e l’acqua erano dimenticanze gravi; o, almeno, erano destinate a diventarlo non appena suo padre avesse saputo che lui si era allontanato nei boschi senza portare con sé qualche provvista.

E all’improvviso, nel veder luccicare le prime stelle nei fazzoletti di cielo sempre più blu incorniciati fra le cime degli alberi, si fece strada in lui la convinzione di non essere Daniel Boone né Kit Carson. Lui era solo un tredicenne che, per la sua sbadataggine, si era messo in una situazione che presto sarebbe diventata sgradevole, e che rischiava di nascondere dei pericoli.

Roger era un po avventato, ma non era sciocco. Una volta compresa la situazione, il suo primo impulso non fu quello di correre verso casa a rotta di collo.

Fece la cosa più sensata: rimase dove si trovava, e cercò di studiare un piano d’azione.

La notte era certamente fredda, sulla montagna. Lui non poteva farci niente, ma, in ogni caso, un riparo di rami di pino poteva essergli utile. Inoltre non c’era cibo, o, almeno, cibo che potesse trovare al buio. L’acqua, però, poteva trovarla; e, dopotutto, era la sua principale necessità. Ricordando che il torrente della valle da lui attraversata era asciutto, il ragazzo raggiunse la cima della bassa collinetta davanti a lui, e passò dall’altra parte. Cominciò a scendere, e dovette procedere a tentoni, prima di raggiungere il fondo, perché gli ultimi chiarori del crepuscolo non riuscivano a vincere l’oscurità che regnava sotto le conifere. Come sperava, trovò un ruscello: in parte grazie al rumore dell’acqua corrente, in parte perché per poco non cadde dall’argine.

Aveva con sé il coltello, e con esso tagliò una certa quantità di rami di pino: quanto bastava per farsi un giaciglio accanto al ruscello, dietro un tronco caduto che gli serviva come tetto. Sapeva che doveva interrompere la circolazione d’aria attorno al suo corpo. Poi si recò a bere, si slacciò la cintura, e s’infilò nel suo rozzo riparo. Tutto considerato, si addormentò quasi subito.

Era un ragazzo sano, e la notte non era particolarmente fredda. Dormiva profondamente, e il rumore dei rami spezzati non riuscì a svegliarlo: non ci riuscì neppure il sonoro crepitio che fece la sonda di Ken quando si posò sulle piante del sottobosco, a una quarantina di metri di distanza. Roger si limitò a mormorare qualche parola nel sonno e a voltarsi dall’altra parte.

Ma alla fine venne svegliato dal tipo di avvenimento che è capace di spingere a una frenetica attività chiunque abiti in una foresta. Il portello del vano di carico della sonda si trovava dalla parte del ragazzo. La luce proveniente dalla combustione del sodio e dalla fusione dell’oro e del ferro non lo disturbò affatto: forse gli fece fare soltanto un brutto sogno, o forse, in quei momenti, il ragazzo era voltato dall’altra parte. La luce accecante del magnesio, però, lo colpì in pieno sulle palpebre.

Prima ancora di essere del tutto sveglio, si trovò in piedi, a gridare «al fuoco!».

Il ragazzo conosceva bene i danni prodotti dagli incendi boschivi. L’estate precedente, a nord del Traghetto di Bonner, ce n’era stato uno di tremila ettari, e un secondo, meno esteso, ma molto più vicino, nei pressi di Troy. Roger sapeva che cosa comportava, una simile catastrofe, per le forme di vita che incontrava sul suo cammino, e per qualche secondo rimase totalmente immobilizzato dal panico. Fece addirittura un balzo per allontanarsi dal bagliore, e ritornò in sé quando si sentì cadere a terra: era inciampato nel tronco accanto a cui si era messo a dormire.

Si rimise in piedi con più calma, e si accorse che la luce che lo aveva svegliato non era quella rossastra e tremolante del legno incendiato, che non si udivano i ruggiti e gli scricchiolii che aveva sentito descrivere molte volte, e che non c’era odore di fumo. Non aveva mai visto bruciare il magnesio, ma il semplice fatto che non si trattasse di uno dei soliti incendi boschivi diede di nuovo esca alla sua curiosità.

La luminosità era sufficiente a permettergli di oltrepassare senza difficoltà il piccolo rivo, e in pochi secondi Roger attraversò il sottobosco e giunse all’origine della luce. Mentre si avvicinava, cominciò a gridare: «Ehi! Chi è là? Che cos’è quella luce?»

Il rombo di tuono con cui gli rispose Sallman Ken lo riempì di spavento. Il diaframma vocale collocato sul torso dei sarriani assomiglia a un tamburo e può imitare gran parte dei suoni della voce umana, ma li imita con una distorsione che viene immediatamente percepita dall’orecchio dell’uomo; al ragazzo si accapponò la pelle nel sentir ripetere con quel timbro soprannaturale le parole da lui pronunciate. Anzi, il fatto di potere riconoscere in quella voce tonante le sue stesse parole peggiorava addirittura la cosa.

Si fermò a un paio di metri dalla sonda, perplesso. L’abbagliante luce biancazzurra proveniente dall’apertura rettangolare era bruscamente cessata al suo avvicinarsi, ed era stata rimpiazzata dal lucore giallastro del crogiolo in cui era contenuto il magnesio, che si stava lentamente raffreddando. Roger riusciva a vedere cosa c’era al di là del portello. C’era un unico, grande vano, che occupava gran parte di quella porzione della misteriosa struttura, a quanto poteva vedere nell’oscurità che gli impediva di scorgerne con esattezza i bordi, e il fondo era pieno di forme approssimativamente cilindriche, poco più grandi del suo pugno. Una di queste era l’origine della luminosità che gli permetteva di scorgere quei particolari, e da almeno altre due si irradiava una luce rossastra. Roger era giunto a questo punto delle sue considerazioni, quando Ken cominciò a leggere il suo elenco di metalli preziosi.