Roger, naturalmente, sapeva che cos’erano il platino e l’iridio, anche se la parola «platino» non si prestava molto bene a essere pronunciata dall’apparato vocale sarriano; ma, come la maggior parte degli esseri umani, fu la menzione dell’oro a eccitarlo più di ogni altra cosa. Ripeté immediatamente la parola.
«Oro!»
«Oro» rispose la voce tonante che giungeva dalla sonda, e Roger, facendosi coraggio, si avvicinò al portello da cui usciva ancora una vampa di calore, e guardò all’interno. Come gli era parso in precedenza, i piccoli crogioli cilindrici erano dappertutto. Il vano era coperto di polvere bianca: gli ossidi di titanio e di magnesio usciti dai contenitori durante le vivaci reazioni chimiche che li avevano prodotti. Altrettanto diffusi erano i piccoli globuli giallastri di perossido di sodio. Il calore che giungeva dall’interno del vano era notevole, ed era accompagnato da un debole odore di solfo, ma quando Roger provò con cautela a toccare col dito la polvere caduta sul fondo, si accorse che la temperatura era sopportabile. Vide quasi subito l’oggetto di cui aveva parlato la voce all’altoparlante: l’oro, che si era già solidificato nel suo piccolo contenitore. La luce era sufficiente a permettergli di riconoscerlo, anche perché non c’era niente, all’interno del vano, che avesse anche solo approssimativamente un colore simile al suo.
Il ragazzo passò subito all’azione, ma con maggiore accortezza di quanto si potesse pensare. Mise a buon profitto un ramo secco che aveva raccolto da terra quando si era avvicinato: il portello del vano gli sembrava una sorta di trappola, e usò il bastone per tenerlo spalancato. Poi afferrò il vaso dell’oro.
Non aveva visto i fili di collegamento tra il riscaldatore e la fonte di alimentazione della sonda. E. dopo avere toccato il crogiolo, non si preoccupò certo di guardarli, anche se erano l’unico motivo che gli aveva impedito di portare via il contenitore. Ebbe il tempo di dare un solo forte strattone, prima di accorgersi che scottava.
Roger, con la faccia infilata all’interno del vano, lanciò un urlo ancora più forte dei precedenti, lasciò cadere il crogiolo, mollò un calcio rabbioso contro la superficie della sonda, e cominciò a saltellare, tenendosi la mano scottata e gridando improperi all’indirizzo delle ignote creature che erano responsabili della sua ustione. Non si accorse che il bastone da lui usato per tenerlo aperto si spezzò bruscamente quando il portello cominciò a chiudersi, e non notò il tonfo, quando il portello si incastrò contro i frammenti di legno. La brusca scomparsa della luce richiamò però la sua attenzione, e quando il portello si riaprì, Roger comprese cos’era successo. Senza sapere perché lo facesse, spazzò via i pezzi, con la mano sana, e un istante più tardi si trovò nuovamente nell’oscurità perché il portello si chiuse ermeticamente. Aveva l’inquietante sensazione di essere osservato.
Di nuovo echeggiò la voce. Roger riconobbe di nuovo la parola «oro», insieme ad altre che erano troppo distorte per poterle capire. Del resto non aveva tabacco con sé, e certo non ce n’era nella sonda, cosicché non gli venne neppure in mente che potesse trattarsi di quella parola. Non cercò di imitare le parole dal suono misterioso, e dopo qualche istante la voce tacque.
Al suo posto si udirono dei suoni più deboli, che non parevano rivolti a lui, anche se avevano la complessità di un discorso. Roger, naturalmente, non si sarebbe espresso in questo modo, ma ebbe la chiara impressione che si trattasse di una conversazione che lui non poteva capire.
La conversazione durò a lungo, poi tornò a echeggiare il ritornello di prima: «Oro… tafacco… oro… tafacco!» Alla fine, la cosa cominciò a dargli sui nervi, e Roger si mise a gridare contro lo scafo scuro.
«Non so cosa volete dire, maledetto voi! Che mi venga un accidente se ho intenzione di toccare di nuovo il vostro oro, e non capisco le altre parole che dite. State zitto!» Mollò un altro calcio allo scafo, per sottolineare le sue convinzioni, e rimase assai sorpreso quando la voce tacque. Indietreggiò di alcuni passi, chiedendosi cosa stesse succedendo. E fu un bene che si fosse spostato.
Un istante più tardi, senza alcun rumore che desse il preavviso, la forma scura della sonda scattò verso l’alto, s’infilò tra le fronde che sporgevano al di sopra di essa, e svanì nel cielo scuro, con un fischio di aria lacerata. Per alcuni minuti, il ragazzo rimase fermo dov’era, con la testa sollevata, intento a fissare il varco che si era aperto in mezzo ai rami; ma non ebbe alcun premio per le sue fatiche, a parte la vista delle stelle.
Roger Wing dormì poco, quella notte, e il fatto di essere finito con i piedi nell’acqua mentre cercava il suo riparo fu soltanto una delle ragioni.
8
«No, non è quello il problema principale» ripeté Laj Drai, pensoso, mentre entrava nel laboratorio e si chiudeva distrattamente la porta alle spalle.
«Signore, io…» cominciò Feth, ma le sue scuse terminarono lì.
«No, non badate a me. Continuate, Ken… vedo che avete un problema. Cercate di risolverlo, e poi ci prenderemo cura dell’altro. Non ci saranno interruzioni.»
Un po perplesso, perché si era completamente dimenticato delle minacce di Drai, Ken ritornò al microfono e riprese la sua cantilena. Anche se non capì le parole con cui Roger infine lo interruppe, la cosa era andata tanto per le lunghe che anche lui condivideva l’impazienza del ragazzo. Inoltre, il rumore che udì quando il ragazzo assestò una pedata alla sonda era assai indicativo.
Fu Drai a far decollare la sonda, un attimo più tardi. Anche lui non aveva mai udito quelle parole; ma erano alquanto diverse dalle solite conversazioni umane: talmente diverse da fargli venire i brividi. Non riusciva a concepire l’idea che i suoi rapporti con il Pianeta Tre s’interrompessero o divenissero tesi… la creatura era chiaramente eccitata, e probabilmente in collera. Quel colpo sullo scafo della sonda…
Pensando a questo, Drai fece guizzare un tentacolo verso il quadro dei comandi, sfiorando Sallman Ken: le leve di controllo dell’alimentazione e del motore scattarono contemporaneamente. Dal suo posto sulla spalliera, l’investigatore si voltò lentamente verso il suo datore di lavoro e lo fissò incuriosito.
«Mi sembrate altrettanto eccitato quanto l’indigeno. Cos’è successo?» domandò. Laj trasse un profondo respiro, e infine riuscì a controllare la propria voce. Cominciava ad accorgersi che quel suo ingresso, così teatrale, poteva non essere stata la più saggia delle mosse. Era possibile che l’esperto da lui recentemente assunto avesse appreso in modo del tutto innocente il nome del prodotto che giungeva dalla Terra; e se le cose stavano così, era pericoloso dare troppa importanza all’accaduto. Almeno in pubblico. Fece dunque retromarcia, con tutta l’indifferenza possibile.
«A quanto vedo» disse «le vostre analisi chimiche hanno incontrato delle difficoltà.»
«Lo credo anch’io. A quanto pare, i vostri indigeni non hanno le abitudini completamente diurne che mi avevate detto.» Ken non era partito con l’intenzione di difendere le proprie azioni, ma non poteva venirgli in mente risposta migliore. Laj Drai si soffermò per un istante a riflettere.
«Sì» disse infine «è un punto che mi sorprende leggermente. Per vent’anni non hanno mai fatto segnali, se non durante il loro periodo diurno. Mi chiedo se c’entrino gli abitanti delle distese azzurre, ma non riesco a immaginarne il modo, e neppure il motivo. Siete riuscito a eseguire i vostri test?»
«I più importanti, credo. Dovremo riportare la sonda qui alla base, per vedere che cosa è successo ai miei campioni in quell’atmosfera. Alcuni campioni sono bruciati, lo sappiamo già, ma vorrei conoscere i loro prodotti di combustione.»