«Penso di sì.» Per la prima volta, Feth gli rivolse un’espressione che assomigliava a un sorriso. «Probabilmente potrei montarvi una fornace sotto i piedi, ma non so se riuscireste a camminare.»
«Non riuscirei a camminare, ma riuscirei a vedere» disse Ken.
«Se il vostro visore non incontrerà gli stessi guai incontrati dai miei tubi televisivi» commentò Feth. «Anche il quarzo ha i suoi limiti.»
«No, penso che resista. Comunque, noi non correremo nessun rischio per accertarcene. Procediamo pure, e installiamo quegli strumenti: sono curioso di sapere chi di noi ha ragione. È questo, il registratore?» Prese in un armadio un piccolo apparecchio la cui caratteristica più appariscente era costituita dalle due grosse bobine di nastro magnetico, e lo sollevò per farlo vedere a Feth. Il meccanico gli rivolse un’occhiata.
«Ha una sola pista» disse. «Prendete un L-7: lo riconoscerete dal nastro, che è cinque volte più largo. Metto un solo barometro, come dite voi, e colloco i termometri nella testa, nel tronco, in un piede e in una manica, cercando di metterli nei punti più lontani dal centro. Con questa sistemazione, il nastro ha ancora una pista libera, che potete usare come volete.» Il meccanico, mentre parlava, continuava a lavorare: prelevava, da un armadietto ben fornito, alcuni minuscoli strumenti e li fissava nei punti da lui annunciati. Per un attimo, Ken si chiese se l’esistenza di quella abbondante scorta di strumenti non smentisse la sua teoria dell’assenza di conoscenze tecniche; poi comprese che quegli strumenti non erano altro che un assortimento standard da laboratorio, e indicavano soltanto un forte investimento finanziario. Chiunque poteva comprarli, e chiunque poteva usarli.
Nonostante l’abilità di Feth, quel lavoro richiese un tempo piuttosto lungo. Dato che erano sarriani, non avevano bisogno di dormire, ma anch’essi di tanto in tanto avevano bisogno di riposare. Fu nel corso di uno di questi periodi di riposo che Ken notò per caso l’indicazione dell’orologio.
«Ehi» fece notare al compagno «su quella parte del pianeta deve ormai essere giorno. Mi chiedo se Drai sia già sceso con la sua sonda.»
«Probabilmente, sì» rispose Feth, guardando a sua volta l’orologio. «E probabilmente sarà già di nuovo nello spazio: di solito non perde molto tempo.»
«In tal caso» fece Ken «c’è il rischio che io venga spellato, se salgo fino all’osservatorio?»
Feth lo osservò per qualche istante senza parlare, e Ken si pentì di avergli rivolto la domanda.
«Probabilmente spellerebbe me» gli rispose infine il meccanico «se Drai scoprisse che vi ho consigliato di farlo. È preferibile che rimaniate qui. Abbiamo molte cose da fare.» Si alzò e ritornò alla sua attività, anche se il periodo di riposo era appena iniziato. Ken capì che non intendeva dire altro, e si affrettò a unirsi a lui.
Il lavoro terminò giusto in tempo. L’armatura superò un test di un’ora, svoltosi nel vuoto della camera di decompressione, per accertare le perdite di pressione e di calore; venne assicurata agli anelli di carico posti sullo scafo di un’altra sonda; partì in direzione dello spazio, guidata dal pilota automatico, e proprio allora la sonda con i campioni cominciò a decelerare nel suo viaggio di ritorno. Nel caso della sonda che portava la tuta corazzata, il pilota automatico era necessario: il secondo missile non poteva essere guidato mediante la radio finché il primo non era rientrato, dato che l’altra unità radio veniva utilizzata da Drai per riportare su Mercurio il suo carico.
Tra la partenza della sonda con la tuta e l’arrivo di quella con il laboratorio mobile ci fu il tempo per un breve periodo di riposo; Ken non vedeva l’ora di esaminare i campioni, e infine la sonda, sotto il controllo esperto di Feth, uscì dalla camera di decompressione. Ken intendeva gettarsi subito sui suoi campioni, ma il meccanico gli gridò di fermarsi.
«Fermo! Non è fredda come sul Pianeta Tre, ma è perfettamente in grado di congelarvi! Guardate.» Indicò con un tentacolo la superficie lucida della sonda, sulla quale si condensavano gocce di solfo liquido, che si univano tra loro sotto forma di rivoletti che poi precipitavano a terra, dove si ritrasformavano subito in vapore. «Prima, lasciate che si riscaldi.»
Ken si fermò, obbediente, e si affrettò a tirarsi indietro sentendosi giungere sui piedi il soffio gelido che proveniva dallo scafo. L’aria che arrivava fino a lui era sopportabile, ma lo scafo stesso doveva essere talmente freddo da solidificare lo zinco.
Passarono lunghi minuti prima che il metallo si riscaldasse a sufficienza perché cessasse lo sgocciolio del solfo liquido. Soltanto allora Feth aprì il portello del vano di carico, e il processo di liquefazione del solfo si ripeté. Questa volta, il liquido color paglierino formò una pozza sul fondo del vano di carico, allagando i contenitori e facendo sorgere in Ken seri dubbi sulla purezza dei suoi campioni. L’investigatore accese a bassa potenza tutti i riscaldatori per eliminare in fretta la condensa. Poiché c’era il rischio che il contenuto del vano di carico reagisse con l’aria se la temperatura si fosse alzata troppo, si affrettò a staccare il riscaldamento non appena cessarono il sibilo e il brontolio dell’aria che bolliva; e finalmente fu in grado di esaminare i prodotti delle sue reazioni chimiche. Come avrebbe potuto dirgli Roger Wing, erano davvero qualcosa di sorprendente!
9
Alcuni dei piccoli contenitori erano pieni, e quasi tutti sembravano intatti. Altri, invece, non lo erano affatto. Il loro contenuto era facile da trovare, ma Ken capì che sarebbe stato difficile da analizzare.
Una polvere bianca era letteralmente dappertutto, come aveva già constatato Roger. I fiocchi gialli di perossido di sodio diventavano progressivamente più grigi perché si decomponevano a causa del calore. Il crogiolo dell’oro era uscito dalla sua basetta, ma per il resto era immutato; il ferro era diventato nero; sodio, magnesio e titanio erano scomparsi, anche se il residuo contenuto in ogni crogiolo faceva sperare di poter analizzare un po delle polveri. Nel contenitore del carbonio c’era ancora un poco di quella sostanza, ma molto meno di quanta ce n’era in partenza.
Tutto questo, comunque, per interessante e importante che fosse, richiamò soltanto per pochi istanti l’attenzione di Feth e di Ken; poiché all’interno del portello di carico, impressa chiaramente sullo strato di polvere, c’era un’impronta completamente diversa da tutte quelle che avevano visto fino a quel momento.
«Feth, cercate una macchina fotografica. Io vado ad avvertire Drai.» Le parole non erano ancora uscite dal suo diaframma, che Ken si era già precipitato verso la porta; e, una volta tanto, Feth non ebbe niente da dire. Non riusciva a staccare gli occhi dall’impronta.
Non c’era niente di strano o di inquietante nell’impronta; ma Feth non riusciva ad allontanare dalla mente l’affascinante interrogativo su chi l’avesse lasciata. Per un alieno che non ha mai visto niente di simile a un essere umano, l’impronta di una mano comporta ovviamente delle difficoltà di interpretazione. A quanto ne sapeva lui, la creatura poteva essere stata in piedi, o seduta, o piegata, o poteva essersi distesa sopra il portello nella maniera che per i sarriani era l’equivalente dello stare seduti. Non c’era modo di scoprirlo.
L’indigeno poteva essere grosso come il piede di un sarriano, e poteva avere lasciato l’impronta con il suo corpo; o poteva essere troppo grosso per infilare nel vano qualcosa di più che una semplice appendice. Feth scosse la testa per chiarirsi le idee. Si era accorto che continuava a rimasticare gli stessi concetti. Andò a cercare la macchina fotografica.
Sallman Ken entrò nell’osservatorio senza avvertire, ma non diede a Drai la possibilità di esplodere. Era eccitato dalla notizia della scoperta; un po troppo, anzi, perché continuò a parlare per l’intero tragitto fino al laboratorio. Quando giunsero laggiù, l’impronta stessa fu una sorta di delusione per Drai, che si mostrò interessato per pura cortesia, ma non di più. Ai suoi occhi, naturalmente, l’aspetto fisico dei terrestri non aveva alcuna importanza. La sua attenzione si rivolse a un altro particolare.