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«Cos’è quella polvere bianca?»

«Non lo so ancora» confessò Ken. «La sonda è rientrata appena adesso. È l’effetto dell’atmosfera del Pianeta Tre sui campioni che ho spedito laggiù.»

«Allora, tra poco sapremo la composizione dell’atmosfera? Sarà utile. Ci sono delle caverne, nei pressi della zona buia, che conosciamo da diversi anni: potremmo facilmente sigillarle e riempirle dei gas che voi ci direte. Quando scoprirete qualcosa, fatecelo sapere subito.» Si allontanò dal laboratorio, con indifferenza, e Ken rimase leggermente deluso. L’aveva giudicata una scoperta assai affascinante.

Con un’alzata di spalle, cercò di cancellare la delusione, raccolse i suoi campioni senza toccare l’impronta, e li portò all’altra estremità della stanza, sul banco dove aveva allestito un semplice laboratorio chimico. Come aveva detto lui stesso, non era un esperto di analisi chimiche; ma i composti che si formavano nel corso delle combustioni non erano molto complessi, e Ken era certo di potersene fare una buona idea.

In fin dei conti, lui conosceva i metalli contenuti nei campioni: l’unico metallo gassoso che si poteva trovare nell’atmosfera del Pianeta Tre era l’idrogeno. Il mercurio era liquido, a quella temperatura, e nessun altro metallo aveva una pressione di vapore abbastanza alta, neppure alla temperatura di Sarr. Tenendo ben fissa in mente questa idea e usandola come riferimento, Ken si mise al lavoro.

Per un chimico, la descrizione delle operazioni effettuate da Ken risulterebbe interessante. Per tutti gli altri sarebbe solo una routine noiosa e ripetitiva di riscaldamenti e raffreddamenti, misure di punti di ebollizione e di congelamento, filtraggi e frazionamenti. Se fosse partito con la mente sgombra da preconcetti, Ken avrebbe fatto più in fretta; ma alla fine anche lui si convinse. E una volta convinto, si chiese perché non ci avesse pensato prima.

Feth Allmer era ritornato già da tempo, e aveva fotografato l’impronta da una decina di angoli diversi. Ora, vedendo che Ken aveva cessato di lavorare, lasciò la spalliera su cui si era disteso a riposare e raggiunse il banco di lavoro.

«Avete trovato qualcosa, o siete rimasto bloccato?» domandò.

«Credo di aver trovato quello che cercavo» rispose Ken. «Avrei dovuto pensarci fin dall’inizio, tanto era ovvio. È ossigeno.»

«Perché è tanto ovvio?» domandò Feth. «E, anzi, perché non ci avete pensato?»

«A questa domanda non saprei rispondere. Semplicemente, ho scartato l’ipotesi, e basta, perché è un elemento troppo attivo. Non mi sono soffermato a pensare che a quella temperatura non può essere molto più attivo di quanto lo è il solfo alla nostra. È perfettamente plausibile che si trovi libero nell’atmosfera… a condizione che ci sia un processo che sostituisce costantemente quello che si combina con gli altri elementi. È lo stesso discorso che vale per il solfo. Maledizione, i due elementi sono così simili tra loro! Me ne sarei dovuto accorgere fin dal primo istante.»

«Che cosa intendete dire… un processo che sostituisce?»

«Come sapete» disse Ken «noi respiriamo solfo e con i nostri processi metabolici produciamo solfuri. Viceversa, le forme viventi che si nutrono di minerali, come gran parte della vegetazione, scompongono i solfuri e liberano solfo allo stato molecolare, utilizzando l’energia solare. Probabilmente, anche sul Pianeta Tre c’è un’analoga suddivisione tra le forme viventi: alcune formano ossidi, e le altre li scompongono. Adesso che ci penso, anche su Sarr ci sono dei microrganismi che usano l’ossigeno al posto del solfo.»

«L’atmosfera del pianeta» domandò Feth «è costituita di ossigeno puro?»

«No. L’ossigeno è soltanto un quinto o poco più. Ricorderete come sono bruciati in fretta il sodio e il magnesio, e di quanto è calata ogni volta la pressione.»

«No, non ricordo, e non vedo il legame tra le due cose, ma penso che dovrò prendere a scatola chiusa le vostre affermazioni. Che cos’altro c’è, in quell’atmosfera? Il titanio l’ha consumata quasi tutta, se ricordo bene.»

«Proprio così. Si tratta di azoto, o di uno dei suoi ossidi; non saprei dire quale, senza fare altri esperimenti con campioni meglio controllabili dal punto di vista quantitativo. Gli unici composti del titanio che ho trovato in mezzo a quella confusione sono ossidi e nitruri. Il carbonio si è ossidato, credo, e il motivo per il quale non ci sono stati cambiamenti di pressione, esclusi quelli dovuti al raffreddamento, è che il principale composto di carbonio e ossigeno contiene due atomi d’ossigeno, e pertanto non ci sono cambiamenti di volume. Avrei dovuto pensarci.»

«Credo di dover accettare anche queste considerazioni a scatola chiusa» commentò Feth. «Quindi, non ci resta da fare altro che preparare una miscela di azoto e ossigeno in proporzione di quattro a uno, e di riempire fino a due terzi della pressione normale le caverne di cui ha parlato il capo?»

«Forse è una descrizione un po troppo semplicistica, ma dovrebbe essere abbastanza simile all’ambiente naturale da permettere la crescita di questo vostro tafacco… ammesso che si riesca a portare qui, vivi, i campioni per dare inizio alla coltivazione. Inoltre, sarebbe bene procurarsi un po del terreno del Pianeta Tre: non credo che sarà sufficiente ridurre in polvere la roccia di qui. Detto per inciso, non ho nessuna intenzione di analizzare quel terreno: non intendo neppure tentare di farlo. Dovrete trovare voi il modo di portarne qui la quantità necessaria.»

Feth lo fissò con gli occhi sbarrati. «Ma è assurdo!» esclamò. «Ne occorreranno tonnellate, per una piantagione decente.»

Sallman Ken si limitò ad alzare le spalle. «Lo so» disse. «Ma vi dico che raccogliere quelle tonnellate di terreno sarà più facile che compierne un’analisi esauriente. Io non conosco a sufficienza la chimica per farlo, ma credo che neppure i migliori chimici di Sarr si azzarderebbero a fare delle ipotesi sulle sostanze chimiche che si possono trovare allo stato solido su quel pianeta. A quella temperatura, scommetto che potrebbero esistere composti organici privi di fluoro e di silicio!»

«Sarà meglio chiamare Drai, e dirglielo» replicò Feth. «Sono certo che pensava di poter fabbricare per sintesi l’atmosfera e il terreno, in modo da allestire la coltivazione con le nostre sole forze.»

«Sarà meglio chiamarlo» convenne Ken. «Fin dall’inizio gli ho detto ben chiaramente i miei limiti; se s’aspetta un risultato simile, vorrà dire che non si rende conto della natura del problema.» Feth si allontanò, con l’aria preoccupata, e Ken non capì che importanza avesse, la cosa, per il meccanico. Più tardi, lo venne a sapere.

L’aria preoccupata era ancor più evidente quando Feth fece ritorno.

«Adesso» comunicò il meccanico «dice che ha da fare. Ne parlerà con voi dopo il rientro della tuta, in modo che si possano valutare anche le possibili alternative. Vuole che vi conduca a vedere le caverne, per farvi capire che cosa ha in mente quando parla di usarle.»

«Come si arriva laggiù?» domandò Ken. «Penso che siano abbastanza lontane.»

«Ci porterà Ordon Lee, con la nave. Distano tremila chilometri. Mettiamoci lo scafandro.»

Ken, eroicamente, soffocò il desiderio di chiedere perché l’intera questione fosse saltata fuori all’improvviso, nel bel mezzo di quello che sembrava un problema del tutto diverso, e si recò all’armadio dove erano custodite le tute spaziali. Comunque, aveva dei sospetti sul vero motivo, ed era sicuro che la loro spedizione sarebbe durata fino al ritorno della sonda contenente la merce di Laj Drai. Ma tutte queste cose gli passarono di mente quando pose piede sulla superficie di Mercurio, per la prima volta dal suo arrivo alla stazione.