«È sulla frequenza della vostra sonda» disse. «Lo schermo a destra è un’unità radar che potrà esservi utile per rintracciarla. In cima al quadro c’è un indicatore direzionale, e premendo questo interruttore la sonda trasmette un segnale.»
Senza dire niente, Ken si mise al quadro di comando e in pochi minuti imparò a usarlo. Dapprima l’indicatore direzionale gli fornì dei valori poco attendibili, a causa della grande distanza a cui si trovava la sonda; ma in poco tempo Lee riuscì a ridurre questa distanza, e un quarto d’ora più tardi la piccola navicella, ancora invisibile, si trovò a non più di una ventina di chilometri da loro. Da quel punto in poi, Ken non ebbe difficoltà a guidare la sonda: poco più tardi, lui e Drai lasciarono la cabina di comando e scesero in un deposito, situato nella stiva della Karella, dove la sonda si stava riscaldando.
A richiamare tutto il loro interesse fu questa volta la tuta che era ancora legata all’esterno della sonda. Sonda e tuta erano state immerse nell’atmosfera per un’intera ora, tempo che a Ken pareva sufficiente per scoprire ogni possibile difetto. Rimase un po scoraggiato nel vedere che l’aria si condensava anche sulla tuta, e non solo sullo scafo metallico; se i riscaldatori avessero lavorato come dovuto, durante le ore di volo nello spazio si sarebbe dovuto raggiungere un equilibrio tra gli strati interni e quelli esterni dell’armatura. Più precisamente, visto che un equilibrio era stato senza dubbio raggiunto, lo si sarebbe dovuto raggiungere a temperatura molto più alta.
Comunque, sulla tuta l’aria cessò di condensarsi molto prima, e Ken riprese un poco a sperare quando fu finalmente in grado di staccare la corazza dalla sonda e di esaminarla attentamente.
La superficie metallica esterna aveva cambiato colore. Era la prima cosa che si notava, la più ovvia. Invece della lucentezza argentea dell’acciaio levigato, su certe aree c’era una forte tinta bluastra, soprattutto verso la punta delle appendici di manipolazione, simili a mani, e sulla parte posteriore delle gambe. Ken pensava di attribuire quel colore a corrosione causata dall’ossigeno, ma non riusciva a capire la sua distribuzione inuguale. Con trepidazione aprì il torso della massiccia tuta e infilò un tentacolo all’interno.
L’interno era freddo. Troppo freddo per i suoi gusti. I riscaldatori sarebbero stati in grado di rimediare a questa situazione, ma non funzionavano. Il registratore era partito automaticamente, grazie a un circuito collocato nella sonda e azionato da un manometro che l’aveva fatto scattare non appena era stato rilevato un aumento della pressione atmosferica, e sulla bobina erano avvolte alcune spire di nastro. La registrazione raccontava una storia abbastanza chiara. Temperatura e pressione erano rimaste costanti per alcuni momenti; poi, all’incirca nel momento in cui la sonda aveva raggiunto la superficie, o poco più tardi, entrambe avevano cominciato a scendere irregolarmente. Molto irregolarmente, anzi: per qualche istante c’era stato perfino un innalzamento di temperatura. Il registratore si era fermato quando la temperatura aveva raggiunto il punto di congelamento del solfo, probabilmente a causa di aria che si era solidificata attorno alle sue parti mobili. Ma neanche dopo essere ritornato a temperatura normale aveva ripreso a funzionare. Quel pianeta era evidentemente una trappola per assorbire calore, pura e semplice.
Non c’erano prove dirette che la tuta avesse perso gas o che ne avesse lasciato entrare da fuori, ma Ken sospettava che fosse successo appunto questo. Il colore azzurrino che si scorgeva su certe parti del metallo era probabilmente dovuto a una fiamma: ossigeno in fiamme, che bruciava sotto i soffi di solfo ad alta pressione che giungevano da qualche invisibile fessura della tuta. Sia il solfo che l’ossigeno mantenevano la combustione, come ben sapeva Ken, e si combinavano tra loro; si fece un appunto mentale di controllare qual era il calore di formazione dei solfuri d’ossigeno esistenti.
Alla fine staccò gli occhi dal teatro della sua disfatta.
«Quando ritorneremo alla base, facciamo dare un’occhiata alla tuta da Feth» disse. «Forse avrà qualche idea migliore delle mie sui motivi che hanno portato questa tuta a perdere l’isolamento. Adesso conviene recarci sul Pianeta Quattro per vedere se c’è qualcosa che possiamo utilizzare come terriccio.»
«Immagino che la nave sia già in orbita attorno al pianeta» rispose Drai. «Lee doveva dirigersi verso di esso non appena portata a bordo la vostra sonda, ma gli ho detto di aspettare il mio ritorno in cabina di comando, prima di scendere.»
I due sarriani si affrettarono a ritornare dal pilota, servendosi delle maniglie da impiegare quando la nave era su un’orbita, in assenza di peso, e la raggiunsero in pochi istanti. Ken cominciava ad abituarsi ad ambienti dove la gravità era diversa da quella sarriana, e anche all’assenza di gravità.
La supposizione di Drai risultò corretta; i motori erano spenti e al di là degli oblò si scorgeva la forma di Marte. Agli occhi dei sarriani, il pianeta appariva ancora più buio che la Terra, e al pari della Terra possedeva ovviamente un’atmosfera. Su Marte, comunque, l’involucro gassoso era molto più sottile. Erano troppo vicini per distinguere i cosiddetti canali, che, visti con adeguati strumenti ottici, risultano essere valli naturali scavate dai fiumi, ma anche i fiumi erano qualcosa di nuovo per i sarriani. Erano troppo vicini per poter vedere dalla loro latitudine anche le calotte polari, ma quando la Karella raggiunse una posizione più a sud, comparve alla loro vista una vasta distesa bianca. La calotta era molto meno estesa di quanto lo era stata un paio di mesi prima, ma anche ora si trattò di un fenomeno totalmente nuovo per gli occhi degli alieni.
O, più precisamente, quasi totalmente nuovo. Ken serrò un tentacolo su uno di quelli di Drai.
«C’era una distesa bianca come questa sul Pianeta Tre! La ricordo distintamente! C’è una certa rassomiglianza tra le due, comunque.»
«Come dato di fatto» replicò Drai «ce ne sono due. Volete recarvi su quella macchia per raccogliere i vostri campioni di terreno? Non abbiamo nessuna prova che gli indigeni del Tre coltivino il tafacco proprio su quelle zone.»
«Credo anch’io di no; ma in qualsiasi caso mi piacerebbe dare un’occhiata alla sostanza di cui è composta. Possiamo atterrare ai suoi bordi e raccogliere campioni di tutto quello che troviamo, Lee?»
Il pilota pareva poco convinto, ma alla fine accettò di scendere lentamente nell’atmosfera. Si rifiutò però di toccare terra finché non si fu accertato della rapidità con cui l’aria del pianeta raffreddava lo scafo della nave. Né Drai né Ken fecero obiezioni, e alla fine la distesa bianca, verde e marrone che si allargava sotto di loro cominciò ad assumere l’aspetto di un vero e proprio paesaggio invece che di un disco dipinto sospeso nell’oscurità.
L’atmosfera risultò piuttosto deludente. Con la nave sospesa a poche decine di metri al di sopra della superficie, gli indicatori esterni di pressione parevano assai riluttanti a staccarsi dallo zero. La pressione era circa un cinquantesimo di quella misurabile alla superficie di Sarr. Ken lo fece notare al pilota, ma Ordon Lee non volle che il suo scafo toccasse il terreno prima di avere controllato per una quindicina di minuti i pirometri esterni. Alla fine, convinto che la perdita di calore potesse venire compensata dai riscaldatori, fece posare la nave su una chiazza di sabbia di colore scuro e per un po di tempo stette ad ascoltare il cigolio della catena che si adattava alla nuova distribuzione di peso e alla nuova perdita di calore. Infine, almeno in apparenza soddisfatto, si staccò dai comandi e si rivolse a Ken.