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«Se volete uscire a visitare questo posto in lungo e in largo» disse «fate pure. Non credo che la vostra tuta corazzata corra rischi più gravi di quelli che corre il nostro scafo. Se avrete dei problemi, li avrete ai piedi: la perdita di calore attraverso l’aria è pressoché nulla. Se però cominciate a sentire freddo ai piedi, ritornate subito a bordo!»

Ken rivolse a Drai un’occhiata maliziosa. «Peccato non avere portato due tute» disse. «Sono certo che vi sarebbe piaciuto scendere con me.»

«Neppure se avessi cento vite!» si affrettò a dire Drai. Ken rise. Fatto alquanto curioso, il suo iniziale terrore dello spaventoso gelo di quei pianeti pareva essere svanito; provava un vivo desiderio di scendere sul pianeta a fare la sua prova. Aiutato da Lee e Drai, s’infilò nell’armatura portata fin lì da Mercurio, la chiuse a tenuta d’aria e controllò le varie parti. Poi entrò nel portello ermetico della Karella e osservò con attenzione gli strumenti mentre l’aria veniva aspirata. Non pareva esserci niente di guasto, cosicché chiuse l’interruttore che azionava l’apertura del portello esterno.

Per qualche motivo che lui stesso non avrebbe saputo spiegare, mentre il paesaggio marziano cominciava a svelarsi ai suoi occhi, la sua mente indugiava ancora a pensare alla strana perdita di colore subita dalla tuta che era stata esposta all’atmosfera del Pianeta Tre, e si chiedeva se anche laggiù sarebbe successo qualcosa di simile.

Curiosamente, a duecentocinquanta milioni di chilometri di distanza, un ragazzo tredicenne cercava di capire come fosse scoppiato un incendio che pareva avere incenerito una piccola macchia di cespugli, circondata su tutti i lati da distese di roccia nuda, sul fianco di una collinetta posta circa otto chilometri a ovest della sua casa.

11

Neppure agli occhi di un terrestre Marte è un mondo capace di suscitare entusiasmo. Anche nei momenti più favorevoli è troppo freddo, è eccessivamente asciutto, ed è privo di atmosfera, respirabile o no. La prima e l’ultima di queste caratteristiche colpirono Ken molto sfavorevolmente.

Il terreno davanti a lui era molto piatto. Era anche molto disuniforme. In alcuni punti si scorgeva la roccia nuda, ma questi punti erano pochi, e molto distanziati tra loro. Gran parte dell’area pareva costituita di terra scura e spoglia, con macchie di verde, marrone, rosso e giallo sullo sfondo generale più scuro. Quasi metà del paesaggio sembrava composto di macchie bianche, le stesse che, viste dallo spazio, gli erano parse una massa compatta. Probabilmente, comprese Ken, procedendo verso il centro della regione bianca esse formavano una copertura sempre più spessa: come previsto, la nave era scesa accanto ai suoi bordi.

Con cautela, fece un primo passo allontanandosi dallo scafo della nave. La gravità era minore di quella di Sarr, ma pur sempre superiore a quella di Mercurio, e la tuta corazzata era un grave peso. Con i due tentacoli infilati nella sua «manica» di destra spinse quasi al livello del terreno il goffo tubo di acciaio e mosse la pinza manipolatrice posta in cima. Con qualche difficoltà, riuscì a staccare un pezzo di terriccio color marrone scuro e se lo portò al livello degli occhi. Bloccò i «ginocchi» dell’armatura e si appoggiò sulla protuberanza, simile a una coda, che usciva dalla parte posteriore del tronco metallico della tuta, e in questo modo poté dedicare tutta la sua attenzione all’esame del campione.

Il cristallo che costituiva il portello visivo della sua tuta non mostrava segni di tensione dovuta alla contrazione, ma Ken, per tutta la durata dell’esame, evitò che venisse a contatto con il campione di terreno. Quasi si scordò di questa precauzione, però, quando vide i minuscoli oggetti multicolori sulla superficie del campione. Per quanto strana fosse la loro forma, si trattava senza dubbio di piante. Minuscole, stranamente delicate rispetto alla vegetazione cristallina di Sarr, ma indubbiamente delle piante. E vivevano in quel freddo spaventoso! Già quelle più vicine al metallo del suo manipolatore si raggrinzivano e si arricciavano, per quanto si fosse raffreddata la parte esterna della sua armatura. Ken si affrettò a riferire ai compagni rimasti all’interno della nave questo fatto inaspettato.

«Questa forma di vita deve avere qualcosa in comune con quella di Tre» aggiunse. «Entrambe devono basarsi su reazioni chimiche dello stesso tipo, almeno in generale, poiché tra le temperature dei due pianeti non ci sono differenze significative. Questo terreno deve contenere tutti gli elementi necessari, anche se i singoli composti possono essere diversi… ma chi ha mai sentito parlare di una forma di vita che non fosse un po adattabile sotto questo aspetto?» Tornò a posare gli occhi sul suo campione. «Adesso sembra un po diverso in corrispondenza dei bordi, come se il calore della mia armatura producesse qualche cambiamento in esso. Forse avete ragione, Drai, in questo terreno ci può essere qualche sostanza volatile che in questo momento sta evaporando. Mi chiedo se posso raccoglierne i vapori…» Lasciò cadere il suo campione e cominciò a riflettere.

«Potrete pensarci più avanti. Perché non vi recate a controllare le macchie bianche?» domandò Drai. «E anche le pietre; potrebbero contenere dei minerali che conosciamo… e il terriccio proviene dalle rocce, dopotutto.» Ken ammise la verità di queste parole, si raddrizzò, sbloccò i ginocchi e riprese il cammino che lo portava ad allontanarsi dalla nave.

Fino a quel momento non aveva ancora sentito freddo, neppure ai piedi. Evidentemente, il terreno di quel pianeta non era un buon conduttore di calore. La cosa non era per niente strana, e Ken si prese l’appunto mentale di evitare di mettere i piedi su eventuali zone di roccia nuda che poteva incontrare.

L’area bianca più vicina distava una trentina di metri dal portello della nave. Ken la raggiunse rapidamente, nonostante il peso della sua armatura, e la osservò con attenzione. Non poteva chinarsi a esaminare la costituzione dell’area, e aveva esitazioni a raccogliere quel materiale; ma ricordando che il manipolatore della tuta giungeva a una distanza superiore a quella dei suoi tentacoli, e che il primo campione da lui raccolto era innocuo, allungò il braccio e cercò di raccoglierne un pezzo. La cosa sembrava abbastanza facile.

Il manipolatore raschiò sulla superficie, lasciando dietro di sé una striscia scura: evidentemente, il materiale bianco formava sul terreno uno strato molto sottile. Tuttavia, quando si portò il campione a livello degli occhi, Ken scoprì di avere raccolto soltanto una manciata di sabbia scura. Il bianco era sparito.

Come prevedibile, rimase sorpreso dall’accaduto, e ripeté il tentativo; questa volta fu abbastanza svelto, e vide l’ultima particella di materiale bianco svanire dai granellini di sabbia. «Avevate ragione, Drai» disse per radio «c’è qualche composto che è straordinariamente volatile. Qui non ce n’è a sufficienza per dargli una buona occhiata… vado avanti perché voglio cercare un deposito più consistente.» Riprese il cammino verso il centro dell’area bianca.

La zona era larga una cinquantina di metri, e Ken pensò che la copertura di sostanza volatile poteva essere più alta al centro. Era davvero così, ma la sostanza bianca non divenne mai così spessa da fermare il suo progresso. Il sentiero da lui seguito era nettamente segnato da macchie di terreno nudo, e la sostanza svaniva attorno al suo piede in un modo che aveva quasi del sovrannaturale. Ken, che avrebbe potuto guardarsi alle spalle senza voltare l’intero suo corpo, non lo notò, ma gli osservatori dalla nave se ne accorsero.