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Feth, che considerava quella discesa unicamente alla stregua di un’ulteriore prova dell’armatura, si era opposto a eventuali contatti con gli indigeni perché a suo parere costituivano unicamente una complicazione in più; ma poi la curiosità l’aveva avuta vinta. Ken scendeva in direzione del radiofaro presso cui si svolgeva il commercio: l’intesa era che lo avrebbero fatto posare un poco più a ovest. Lui era più che disposto a conoscere il «suo» indigeno, ma non voleva disturbare il commercio.

Comprendeva, naturalmente, che era molto probabile che le creature che abitavano sul pianeta fossero in grado di muoversi con i propri mezzi, ma evitava decisamente di pensare a quel che poteva essere successo se la creatura da lui spaventata si fosse messa in contatto con quelle che commerciavano; le considerava ipotesi da cui non c’era niente da guadagnare, che era appunto il rischio che correvano tutti.

Il risultato di tutte le discussioni, comunque, era stato che adesso poteva vedere chiaramente allargarsi il pianeta sotto di lui: la sensazione, infatti, era che il pianeta fosse sotto, perché in quel momento Feth faceva rallentare la discesa della sonda. Ken non poteva vedere lo scafo a cui era legato, perché la sua armatura era in contatto con la sonda dalla parte della schiena, e le aperture posteriori di osservazione erano quasi completamente a contatto con il metallo. Cominciava perciò a sentirsi come un uomo che si calava a pancia in giù in un precipizio mediante un cavo la cui resistenza era dubbia.

Se il suo apparato vocale fosse stato strettamente collegato a quello respiratorio come accade per gli esseri umani, la radio avrebbe certo rivelato le sue ansie agli ascoltatori che stavano sopra di lui. Invece, dall’astronave non furono in grado di udire il suo respiro affannato, e Ken dovette vincere da solo e in silenzio i suoi terrori. E probabilmente fu meglio così; la reazione di Ordon Lee non sarebbe certo stata di comprensione, e quanto a Feth, anche se avesse preso parte alle sue angustie, era poco probabile che esprimesse a voce i suoi sentimenti.

Intorno c’era adesso dell’aria: o quanto meno, la miscela gassosa che costituiva l’atmosfera di quel pianeta. L’aria fischiava attorno a lui, ed era udibile perfino all’interno dell’armatura. Non poteva, distare più di sette o otto chilometri dalla superficie, e la discesa era ancora rapida… troppo rapida, anzi, a parer suo. Come in risposta a questo pensiero, il suo peso aumentò improvvisamente: Ken capì che Feth, dall’astronave, aveva dato potenza ai motori.

Con uno sforzo, Ken distolse l’attenzione dallo spettacolo del paesaggio che, sotto di lui, si allargava sempre di più, e dal cigolio delle catene che si tendevano al di sopra della sua testa, e si concentrò sui particolari. Una volta che ebbe iniziato, la cosa divenne più facile, perché gli aspetti fuori dell’ordinario, attorno a lui, erano numerosi e non si limitavano soltanto alla temperatura.

Naturalmente, non poteva vedere molto lontano. Occhi la cui massima sensibilità sta nel campo dell’azzurro e del violetto non sono molto efficienti nell’atmosfera velata della Terra. Comunque, il territorio sotto di lui continuava ad acquisire sempre nuovi dettagli.

Era un terreno molto corrugato, come avevano dedotto nelle loro osservazioni dall’orbita. Anche se le montagne non si presentano certo nel loro aspetto migliore quando sono osservate dall’alto, l’esperienza di Ken era sufficiente a fargli capire che si trattava di altezze del tutto rispettabili secondo i criteri di Sarr.

La superficie era sepolta sotto una confusione di colori, soprattutto sfumature di verde, marrone e grigio. Qua e là, qualche distesa piana, dalla lucentezza metallica, gli ricordava con inquietudine le vaste, lisce aree dove abitavano le intelligenze del pianeta, misteriose e ostili. Forse le piccole aree lucenti erano dei loro avamposti… ma, si disse Ken, non avevano mai interferito con le sonde commerciali che da anni continuavano a scendere in quell’area.

Quando la sua quota si fu ridotta, vide che alcune delle alture grige avevano una forma molto strana: molte di esse erano più grandi in alto che in basso. Dovette però scendere molto di più, prima di accorgersi che quegli oggetti non facevano parte del paesaggio, ma in realtà erano sospesi nell’aria. Le uniche nubi che aveva visto in precedenza erano le grandi tempeste di polvere sollevate dai furiosi venti di Sarr, ma pensò che avessero la stessa natura. Probabilmente erano costituite di particelle molto più piccole, per permettere loro di rimanere in sospensione: un pianeta così freddo non poteva avere venti molto forti.

Descrisse il fenomeno ai suoi ascoltatori con tutta la precisione di cui fu capace. Feth riferì che stava registrando le trasmissioni di Ken, e gli fornì alcune utili informazioni.

«La vostra discesa si è quasi fermata, adesso. Siete a circa un chilometro è mezzo al di sopra del trasmettitore, e a un centinaio di metri al di sopra del punto dove avete fatto i test sull’atmosfera. Volete scendere subito, oppure preferite rimanere fermo dove siete, e osservare per qualche tempo la zona circostante?»

«Fatemi scendere a moderata velocità, per favore. Non è possibile vedere molto lontano, e vorrei scendere in un punto dove si possano scorgere dei particolari interessanti. Sembra una regione montuosa… cercherò di darvi delle indicazioni esatte, per farmi scendere vicino a una cima, in modo di posarmi su un punto fermo, da cui si possa osservare una zona estesa.»

«Benissimo, vi faccio scendere.» Passarono due o tre minuti senza che nessuno parlasse; poi Ken riprese la parola.

«Mi state facendo muovere anche in senso orizzontale?»

«No, siete già a una certa distanza dal trasmettitore… cinque o sei chilometri.»

«Allora, in questa atmosfera ci sono delle correnti più forti di quanto mi aspettavo. Mi sto spostando in modo assai visibile, anche se non rapidamente. È difficile definire la direzione… il sole non è molto lontano dalla verticale, e lo scafo della sonda me lo nasconde.»

«Quando sarete quasi a terra, datemi la direzione rispetto all’orientamento della sonda. Vi farò fermare prima di toccare il suolo.»

Gradualmente, i particolari divennero più chiari. Le parti di colore verde parevano essere costituite da una massa intricata di materiale che assomigliava a certe crescite cristalline che in passato Ken aveva preparato a partire da varie soluzioni; come ipotesi di lavoro, le etichettò come forme di vita vegetale, e cominciò a farsi una certa idea sull’origine dei crepitii da lui uditi quando era scesa a terra la sonda con i test chimici.

Dalle zone verdi emergevano aree che erano certamente costituite di roccia nuda. Sembravano quasi tutte collocate in corrispondenza della cima delle montagne; e con infinita attenzione Ken diresse il suo invisibile pilota in modo da avvicinarsi a una di queste. Quando infine si trovò sospeso a un’altezza di sei o sette metri al di sopra di una superficie che anche in quella luce relativamente pallida sembrava costituita di roccia, diede l’ordine di farlo scendere.

A due metri da terra fece fermare la sonda una seconda volta, e con attenzione sciolse le catene che gli legavano le gambe allo scafo: subito l’armatura, non più trattenuta, penzolò fin quasi a toccare il terreno con le gambe; con poche parole al microfono fece scendere la sonda ancora di quel tanto che gli mancava per appoggiare a terra i piedi. Staccò una delle catene superiori, e questo lo fece ruotare su se stesso finché non si fermò con l’altro gomito contro lo scafo. Con una sorta di contorsione riuscì ad appoggiarsi sul treppiede costituito dalle due gambe e dall’appoggio posteriore, e infine staccò anche l’ultima catena. Era sul Pianeta dei Ghiacci, e si reggeva sulla sua superficie con le proprie gambe!