Si sentiva pesante, ma non in modo insopportabile. Tutte le cautele da lui adottate per non atterrare in posizione sdraiata erano certo giustificate: in quella gravità era poco probabile che riuscisse con la sola forza dei muscoli a sollevare se stesso e la tuta fino a rimettersi in piedi. Anche camminare sarebbe stato difficile… forse addirittura pericoloso; quella roccia era tutt’altro che piana.
La cosa, comunque, non aveva importanza. Per parecchi minuti, dopo essersi staccato dalla sonda, Ken non cercò neppure di muoversi: si limitò a starsene fermo dov’era, ascoltando il ronzio quasi impercettibile delle pompe e chiedendosi quanto mancava prima che cominciasse a sentire freddo ai piedi. Però, non gli parve che succedesse niente, e dopo un poco cominciò a muovere con cautela qualche passo. Le articolazioni della corazza si muovevano ancora; evidentemente lo zinco non si era congelato.
La sonda si era spostata dalla verticale; a quanto pareva, soffiava un debole vento. Dietro suggerimento di Ken, Feth fece posare a terra la macchina. Anche se la curiosità l’aveva ormai avuta vinta sulla paura, Ken non aveva intenzione di allontanarsi troppo dal suo mezzo di trasporto. Assicuratosi che rimanesse fermo al suo posto, si mise al lavoro.
Con una breve ricerca trovò vari frammenti di roccia. Li raccolse e li infilò nel vano di carico della sonda, poiché ogni cosa poteva essere interessante per le sue ricerche; ma la cosa che gli interessava maggiormente era il terriccio… terriccio in cui crescessero delle forme viventi. Esaminò diversi campioni di roccia, con tutta l’attenzione possibile, sperando di trovare qualcosa che assomigliasse alle minuscole piante del Pianeta Quattro; pure, non riconobbe come forme viventi i licheni grigi e neri, simili a croste, che effettivamente crescevano su alcuni sassi.
Ma quel paesaggio era tutt’altro che spoglio. A cominciare da poche centinaia di metri dal suo punto d’atterraggio, c’erano degli arbusti e delle macchie di muschio che spuntavano con sempre maggiore frequenza man mano che si scendeva lungo il fianco della montagna, e che gradualmente lasciavano il posto ad alberi nani e, dove la roccia finalmente spariva sotto il terriccio, ad abeti adulti.
Ken vide questa vegetazione e si diresse subito verso la più vicina macchia di arbusti. Un attimo dopo, avvertì Feth di ciò che stava facendo, in modo che la sonda potesse seguirlo. Era inutile, si disse, risalire in cima alla montagna con tutti i suoi campioni.
L’avanzata fu piuttosto difficile, poiché una fessura di trenta centimetri fra due rocce rappresentava un grave ostacolo per l’armatura. Dopo alcuni minuti di cammino interrotti da frequenti pause di riposo, osservò: «La prossima volta, sarà meglio allungare le catene delle spalle. Così potrò restare appeso alla sonda, evitando tutto questo cammino.»
«Giusto» rispose Feth. «Non sarà difficile. Volete tornare subito sulla nave per cambiarvi o intendete raccogliere ancora dei campioni?»
«Oh, intendo fermarmi ancora un po, adesso che sono qui. Non devo fare molta strada per arrivare a quelle piante, sempre che siano piante. Quelle maledette cose sono verdi, almeno in parte. Suppongo però che non ci sia niente di strano in questo, obiettivamente parlando. Bene, adesso riparto.»
Sollevò da terra l’appoggio posteriore e ripartì ancora una volta. Un paio di minuti fu sufficiente a portarlo nei pressi di quella strana vegetazione. Era alta soltanto qualche decina di centimetri e lui incontrava difficoltà a piegarsi, ancor più che sul Pianeta Quattro; perciò allungò un manipolatore per afferrare un ramo. L’effetto fu stupefacente.
Il ramo si staccò senza difficoltà. Tutto come previsto. Però, prima che avesse il tempo di sollevarlo all’altezza degli occhi, una nuvoletta di fumo si allargò intorno al punto in cui lo toccava con il manipolatore, e il tessuto nelle immediate vicinanze del metallo divenne nero. I ricordi destati da questo fenomeno indussero Ken ad abbandonare immediatamente il ramo: avrebbe senza dubbio fatto un passo indietro se l’armatura fosse stata meno ingombrante. Ma subito si ricordò che nessun gas poteva oltrepassare le sue difese metalliche, e raccolse un altro ramo.
Il fumo ricomparve e divenne più spesso quando si portò il ramo davanti agli occhi. Ken ebbe qualche secondo a disposizione per esaminare la sua struttura prima che il rametto fumante prendesse fuoco. Le fiamme lo sorpresero quasi quanto il precedente fenomeno, ma trattenne il ramo col manipolatore. Osservò con interesse il legno che si arricciava, diventava prima nero e poi ardente, e infine prendeva fuoco; vide che le foglie più secche prendevano fuoco a loro volta, mentre quelle verdi diventavano leggermente più scure. Cercò di raccogliere le tracce di cenere rimaste alla fine del processo, ma riuscì soltanto a salvare qualche pezzo delle parti che non erano completamente bruciate. Mise tutto nella sonda, che intanto era stata portata fino a lui da Feth, in base alle sue istruzioni.
Un frammento di terriccio, raccolto sotto la pianta, si mise a fumare ma non bruciò. Ken prelevò dal vano di carico della sonda una serie di contenitori a tenuta d’aria e li riempì di campioni di terra. Inoltre riempì un cilindro di aria sotto pressione, comprimendola con una piccola pompa a pistone da cui Feth aveva attentamente tolto ogni traccia di lubrificante. Non teneva molto la pressione, ma le sue parti mobili si muovevano, e la cosa costituiva una lieta sorpresa.
«Ecco» disse Ken, quando ebbe terminato questi lavori. «Se in questo terreno ci sono dei semi, saremo in grado di costruire un piccolo vivaio e di scoprire finalmente qualcosa su questa forma di vita e le sue caratteristiche.»
«Avete un equilibrio tra produttori e consumatori?» domandò Feth. «Supponiamo che queste piante siano tutte… come si può dire, ossidatrici?… e che non abbiate i necessari organismi… riducenti? Penso che ci debba essere sempre un equilibrio, qualunque sia la forma di vita. Altrimenti si avrebbe il moto perpetuo.»
«Non posso dire niente, ovviamente, finché non avremo provato. Però, potrei scendere un poco più in basso, lungo il fianco della montagna, e raccogliere una più ampia varietà di campioni, visto che ho ancora dei contenitori vuoti.»
«Un’altra cosa» disse Feth. «Non mi pare che abbiate preso qualche provvedimento per tenerli alla giusta temperatura. So che sono freddi quasi come lo spazio interplanetario, ma c’è differenza tra quasi e come.»
«Lasceremo le scatole nella sonda finché non saremo ritornati su Uno» disse Ken. «Prive di aria, la loro temperatura cambierà molto lentamente, e potremo lasciare la sonda in qualche punto della zona crepuscolare di Uno, dove rimarrà pressappoco alla giusta temperatura finché non avremo preparato una camera con termostati e refrigeratore. Non occorre che sia molto grande; io ho solo un paio di metri cubi d’aria.»
«Sì, penso che abbiate ragione. Se non funziona, non sarà una grave perdita. I vostri piedi, cominciate a sentire freddo?»
«Finora, no, non sento freddo e dovete credermi, faccio molta attenzione!»
«Non so se posso credervi» disse Feth. «Ho l’impressione di sapere dove sta la vostra attenzione. Avete visto qualche forma di vita animale? Ho di nuovo sentito quel ronzio, almeno un paio di volte.»
«L’avete sentito? Io non me ne sono accorto. I suoni che ricevo sono quelli che vengono raccolti dal microfono della sonda, e quindi dovrei sentire tutto quello che sentite voi.»
«Ve l’ho detto, stavate attento ad altre cose. Benissimo, vi chiamerò io, se sentirò di nuovo quel suono.» Tacque, e Ken riprese il suo faticoso viaggio verso la base della montagna. Con frequenti pause di riposo, riuscì finalmente a riempire tutti i suoi contenitori e a chiuderli, e li depose nel vano di carico della sonda.
Una volta, venne interrotto da Feth, che riferì di udire nuovamente il ronzio; ma anche se poté sentirlo lui stesso, Ken non riuscì a scoprirne l’origine. Le mosche non sono creature molto grandi, e inoltre la luce era un po bassa, secondo i criteri sarriani. Poiché non c’era molto di interessante neppure per una mosca nel vano di carico al di sopra del quale era collocato il microfono, presto il ronzio cessò.