«Lo penso anch’io. Tra l’altro, visto che non potete leggere gli strumenti della sonda, è meglio che vi piloti io finché non sarete sulla superficie del pianeta. Poi potrete andare dove vorrete.»
«Giusto» rispose Ken. «A una distanza di cinquemila chilometri dalla superficie, non credo di poter giudicare bene la quota e la velocità…»
S’infilarono la tuta spaziale, e cominciarono a trasportare sulla Karella le loro apparecchiature. Lasciarono il vivaio nella camera di decompressione, perché dovevano in seguito legarlo alla sonda; ma Lee si imbatté in esso, qualche minuto più tardi, e cominciò a fare dei commenti corrosivi sulle persone che ostruiscono l’uscita delle navi spaziali. Umilmente, Ken portò la scatola all’interno, senza chiedere aiuto a nessuno, perché Feth era in cabina di comando, intento a far entrare nel suo alloggiamento sullo scafo la sonda a cui aveva applicato i dispositivi manuali.
Erano pronti a partire, se non fosse stato per la mancanza di un’ultima cosa, e nessuno dei due ne aveva notato l’assenza. Se ne accorsero all’ultimo minuto prima dell’ora fissata per il decollo, allorché un’altra figura che indossava la tuta veleggiò dalla camera di decompressione della base a quella della nave. Lee rimase in attesa che salisse, senza mostrare alcuna sorpresa; e un momento più tardi Laj Drai entrò nella cabina di comando.
«Possiamo partire, se tutte le vostre apparecchiature sono a bordo» disse.
Senza fare commenti, Ken rivolse un cenno affermativo al pilota.
16
Ken si era già infilato a metà nella tuta corazzata, ma agitò tutt’e quattro i tentacoli in segno di protesta.
«Se pensate che parli senza capire le cose, perché mi avete assunto?» domandò. «Raccoglierò e coltiverò per voi quelle piante il più in fretta possibile. Il nostro recipiente non è molto grande… laggiù ci sono delle piante che sono più grandi di questa nave, mi crediate o no. Non so più di voi che aspetto abbia questo tafacco quando cresce… anzi, non sono neppure sicuro che sia una pianta. Toglietevi di testa l’idea che io riempia di piante questo vivaio finché non avranno neppure lo spazio per respirare, e cercate di avere un po di pazienza. Ci sono voluti duemila anni per esplorare Sarr, ed è stata un’esplorazione molto più facile di questa!» Tornò a infilarsi nella tuta d’acciaio.
«Farete quello che vi viene ordinato, signor Ken. Non m’importa il modo in cui lo farete, ve l’ho già detto; ma se in un tempo ragionevole non coltiverete il tafacco, qualcuno finirà per pentirsene.»
La risposta di Ken giunse alquanto attutita, poiché dalla tuta gli usciva solo la testa. «Potete farlo, certo; non posso fermarvi. Comunque, se mi lascerete condurre le cose a modo mio, credo onestamente che tutto sarà più veloce. Usate la testa… in fin dei conti, chi è che conosce bene questo pianeta?»
Fece una pausa troppo lenta perché la domanda potesse avere una portata superiore a quella retorica, e poi proseguì: «Gli indigeni, naturalmente. Non soltanto conoscono il pianeta, ma presumibilmente conoscono anche il posto dove il tafacco si può trovare, visto che lo vendono a voi. Non riuscirete ad allontanarmi dalla mia convinzione che il miglior modo di imparare quanto vogliamo sapere è quello di farselo dire dagli indigeni.»
«Ma occorre troppo tempo per imparare una lingua!»
«Certo. E occorre molto tempo per esplorare cinquecento milioni di chilometri quadrati di territorio, anche se escludete i tre quarti che sono costituiti dalle pianure azzurre… cosa che in realtà non potete fare, perché questi indigeni potrebbero essere in buoni rapporti commerciali con quelli delle pianure, e farsi dare il tafacco da loro. Che ne dite di questa possibilità? Mi pare che vi siete stancato di esplorare le pianure già molto tempo fa… com’è andata, avete perso diciannove sonde su venti, oppure venti su venti? La percentuale è abbastanza preoccupante in entrambi i casi.»
«Ma supponiamo che non vogliano farci sapere dove lo possiamo trovare?» disse Drai. «Potrebbero aver paura che ce lo procuriamo da noi, invece di pagarglielo.»
«La cosa non richiede molta intelligenza da parte loro» ammise Ken. «Certo, possono avere dei sospetti. Ho sempre detto che queste trattative devono essere condotte con un po di tatto. Se pensate che non sia capace di condurmi in modo diplomatico, ve lo ripeto… andateci voi. Abbiamo delle altre tute. Io intendo scendere lo stesso, perché voglio studiare il posto, ma potete venire anche voi… la sonda può portare senza difficoltà me, voi e la cassa!»
«Non sarò un genio» disse Drai «ma non sono del tutto pazzo. Sarò laggiù per mezzo della radio. E se non mi piacerà la vostra diplomazia, potrete fare a meno di tornare.»
«Non pensate di recuperare almeno la tuta?» domandò Ken, in tono angelico. «Pensavo che fossero molto costose.» E così dicendo chiuse con un tonfo il pesante elmetto.
Feth, che era lì ad ascoltare, serrò le ultime viti della tuta. Era leggermente preoccupato; lui stesso non aveva più parlato con Drai in questo modo, da anni, e aveva ancora degli spiacevoli ricordi dell’ultima volta che lo aveva fatto. Conosceva, naturalmente, lo scopo di quegli atteggiamenti di sfida da parte di Ken: lo scienziato voleva infastidire Drai quanto bastava a non fargli sospettare più di una cosa alla volta. E la cosa di cui sospettava era quella voluta da Ken.
Feth dovette ammettere con se stesso che Ken aveva condotto bene quella parte della conversazione. Però, gli piaceva poco l’espressione che vide sulla faccia di Laj Drai, quando questi si stese su una spalliera a poca distanza dalla radio.
Smise di pensare alla cosa perché gli giunse una chiamata da Ken, che era nella camera di decompressione e che gli riferiva di essersi legato alla sonda.
«Fatemi uscire di qui con i miei comandi, perché voglio muovermi un po attorno, mantenendomi abbastanza vicino alla nave da poter vedere l’effetto delle mie manovre» terminò. «Voglio imparare a usare questi dispositivi finché ho solo da pensare alla forza d’inerzia, e non anche al peso.»
«Giusto» ammise Feth, e staccò i tentacoli dai comandi. Con un occhio continuò a fissare l’indicatore, e con l’altro cercò il finestrino più vicino. In pochi istanti gli si presentò alla vista il cilindro affusolato di metallo, che schizzava da una parte e dall’altra, facendo dondolare la figura dello scienziato, chiusa nell’armatura e legata a poppa, vicino alla scatola rettangolare del vivaio… anche questo troppo grande per entrare nel vano di carico. Ken non parve incontrare problemi nel controllare il suo veicolo dalla goffa apparenza, e alla fine comunicò di essere pronto per la discesa.
«Bene» disse Feth. «Riprendo i comandi. Controllate che le vostre leve siano sullo zero, perché sono messe in serie con le mie, e gli impulsi si sommerebbero. A proposito, tutta la roba è nel vano di carico.»
L’altra sonda con i campioni era stata recuperata dal suo esilio sulla superficie di Mercurio, e Laj Drai lo sapeva; Feth sperava che non avesse notato l’enfasi sulla parola «tutta». Il meccanico aveva infilato nel vano, insieme con gli altri oggetti, anche una seconda radio, ma l’aveva fatto all’ultimo momento e non aveva avuto il tempo di dirlo a Ken. Sperava che lo scienziato ne conoscesse il funzionamento.
Ken, a dire la verità, non aveva capito l’accenno di Feth. Era troppo occupato a farsi coraggio per la imminente discesa, che la volta precedente aveva messo a dura prova i suoi nervi. Questa volta, l’esperienza risultò meno inquietante, soprattutto perché cercò di non pensarci, concentrandosi sui problemi che lo attendevano sulla superficie del pianeta, e che erano abbastanza numerosi.
Non incontrò difficoltà nel rintracciare la scena dell’incontro precedente, anche se Feth non riuscì a farlo scendere esattamente nello stesso luogo. Si accorse che era in anticipo: il sole si era appena levato. Meglio così, si disse. Comunicò a Feth, come misura di sicurezza, il suo arrivo, gli disse che prendeva i comandi della sonda, e si accinse al lavoro.