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Il primo passo fu quello di far scendere la sonda fino ai limiti di una vasta macchia di piante. Prima di procedere, controllò che la macchia fosse isolata; la reazione dei vegetali di quel pianeta a contatto con il metallo caldo l’aveva impressionato fortemente, e lui aveva una buona immaginazione e capiva quello che poteva succedere. Poi abbassò la sonda finché il vivaio non toccò il suolo, e staccò dalla sonda lo scomodo scatolone. Il doppio coperchio si aprì senza difficoltà… Feth aveva previsto il probabile effetto della bassa temperatura sulle cerniere metalliche… e Ken si mise all’opera.

Recuperò in fretta dal vano di carico i campioni di terreno e li infilò nella scatola, tutti dalla stessa parte. Usando una striscia di metallo che aveva portato con sé, livellò il mucchietto di materiale scuro e ne fece uno strato spesso sette o otto centimetri e largo trenta; poi iniziò a usare la striscia di metallo come se fosse stata una paletta. Lo scienziato staccò dal terreno piccoli cespugli, muschi, altra vegetazione, prestando attenzione a non toccarli con la sua armatura, e posando frequentemente sul terreno la sua striscia metallica perché si raffreddasse.

Esaminò con attenzione i sistemi di radici di quelle piante, tutti assai diversi tra loro, e prelevò con cura un’ulteriore quantità di terreno dai punti dove prima spuntava ciascuna delle piantine, in modo che nel vivaio, sotto di esse, ci fosse un sufficiente spessore di terreno. Uno alla volta trasferì nel vivaio i suoi esemplari, mettendoli forse un potroppo vicini tra loro per accontentare un giardiniere terrestre, ma piantandoli saldamente nel terreno, in modo che rimanessero in piedi, così come lo erano prima. Una volta o due guardò con desiderio i cespugli più grandi, ma rinunciò a prenderli. Erano troppo alti, e un breve controllo gli mostrò che avevano le radici troppo lunghe.

Aveva riempito circa un terzo della superficie quando arrivò la famiglia Wing. Roger ed Edie erano piuttosto avanti rispetto agli altri; i due bambini piccoli sarebbero arrivati probabilmente insieme a loro se quel luogo non fosse stato così lontano da casa. Invece, dato che cominciavano a essere un po stanchi, arrivarono con i genitori.

Ken non li sentì sopraggiungere; il microfono della sonda non era molto sensibile, e questa volta Roger non emise nessun richiamo nel vedere l’alieno. I ragazzi si avvicinarono quanto più poterono, cercando di capire cosa stesse facendo. L’attività di Ken era abbastanza ovvia, ma fu soltanto dopo avere soddisfatto la sua curiosità che Roger lo salutò.

«Siete in anticipo» disse.

«Perché non mi avete avvertito che stavano arrivando?» li interruppe dall’altoparlante la voce di Laj Drai.

«Non li ho visti; stavo lavorando» rispose con calma Ken. «Però, se volete che entriamo in comunicazione con questi indigeni, vi prego di non dire niente. Non sono in grado di capire quando sono io quello che parla, e un numero eccessivo di suoni finirebbe per confonderli.»

S’interruppe, e osservò attentamente il resto del gruppo di esseri umani che si avvicinava. La dimensione della signora Wing e di suo marito lo sorprese un poco; gli occorsero alcuni secondi per capire che gli individui che aveva visto per primi erano probabilmente dei bambini. Gli adulti erano molto più impressionanti, se uno si lasciava impressionare dalla dimensione; Ken si disse che ciascuno di essi doveva pesare più di un sarriano. Almeno il venticinque per cento in più, supponendo che riempissero totalmente le loro strane coperture e che la loro carne avesse pari densità.

Inoltre, nel modo di comportarsi degli indigeni più adulti c’era qualcosa di autorevole; una serietà di intenti, una decisione che, si disse Ken, mancava negli esemplari immaturi. Per la prima volta, Ken pensò agli indigeni della Terra come a delle creature «probabilmente civili».

E senza dubbio le azioni dell’indigeno più massiccio indicavano la presenza di una mente ben disciplinata. Wing padre non perse tempo. Sedette davanti a Ken, tirò fuori un taccuino su cui aveva già scritto le parole che Roger diceva di avere insegnato all’alieno e le passò in rassegna. Osservando Ken, le pronunciò una alla volta; lo scienziato rispose indicando ogni volta l’oggetto corrispondente.

Accertatosi che capiva quelle parole, l’uomo diede subito inizio a una lezione di lingua, con una precisione di intenti e un’efficacia d’esecuzione che indussero Ken a pensare a lui come a un fratello spirituale prima ancora che iniziasse tra loro una vera e propria comunicazione. A questa non si giunse in un colpo solo, ma occorse un tempo assai inferiore a quello che molti potrebbero credere necessario. Come potrebbe confermare chiunque insegni per professione la propria lingua agli stranieri, di gran parte delle cose di tutti i giorni si può discutere soddisfacentemente servendosi di un vocabolario inferiore alle mille parole. La situazione in cui si trovava Ken non era di tutti i giorni, in nessun senso del termine, ma tra l’abilità della signora Wing nel disegno e la disponibilità dei bambini a illustrare praticamente le azioni richieste, i progressi da entrambe le parti furono soddisfacenti.

Per l’intera lezione, Ken era rimasto nello stesso punto, e aveva riscaldato la roccia su cui posava i piedi; di conseguenza passarono almeno tre ore prima che sentisse la prima fitta di dolore causata dal freddo. Quando la sentì, comunque, gli venne in mente che da quando erano arrivati gli indigeni non aveva più riempito la sua scatola di campioni di vegetazione; e, dopo avere educatamente atteso che Wing padre terminasse una spiegazione, indicò la zona vuota. L’uomo annuì, e gli mostrò con la mano la roccia.

Da quando era iniziata la lezione, Ken non aveva più prestato attenzione alle azioni dei due bambini più piccoli; aveva pensato che giocassero, come facevano anche i bambini della sua razza. Adesso si sorprese nel vedere posate sulle rocce, a poca distanza dal vivaio, alcune decine di piante delle più varie forme e dimensioni. Evidentemente i bambini avevano visto che cosa stava facendo, e avevano deciso di aiutarlo. Con crescente sorpresa, scoprì che tra gli esemplari non c’erano duplicati. Quella razza doveva davvero essere intelligente; non aveva visto nessuno degli adulti dare ordini. Con un’espressione orale di gratitudine che certamente non sarebbe stata compresa dai suoi compagni, cominciò goffamente a infilare le piante nella cassa, servendosi della sua striscia di metallo. Quando raccolse la prima, la indicò con il manipolatore libero e disse:

«Parola!»

Tutti capirono cosa volesse dire, e Roger rispose: «Felce.»

Dopo avere osservato per un istante quanto fossero goffe le sue azioni, Wing padre gli indicò di allontanarsi dalla cassa, e mise al lavoro i bambini. Ken li osservò con grande interesse, perché per la prima volta notava quanto fosse efficace, come organo prensile, la mano umana. In particolare, le agili dita delle ragazze infilavano saldamente le piantine nel terreno, a una velocità e con una facilità tali che lui stesso non sarebbe riuscito a uguagliarle, neppure senza l’impedimento dell’armatura e della temperatura diversa.

Ogni volta che prendevano un esemplare, lo chiamavano con il suo nome. In seguito risultò che qualche nome era stato usato più volte, anche per piante che si assomigliavano soltanto superficialmente, o che non si assomigliavano affatto. Gli occorse qualche tempo per risolvere quella sorta di indovinello, anche se sapeva già che la lingua degli indigeni comprendeva sia i nomi individuali sia quelli di genere.

Pochissimi minuti furono sufficienti per coprire di piantine ben sistemate l’intera base della scatola; e non una sola volta Ken udì la parola così importante per Laj Drai che li ascoltava. Quanto a lui, preferiva così: la menzione del «tafacco» da parte di un indigeno in un posto dove Drai poteva udirlo avrebbe intralciato gravemente i piani di Ken.