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«Se la sua forma di vita è tanto diversa dalla nostra, come può sapere che il tabacco viene da una pianta?» rispose Roger. «Alla sua temperatura, certamente brucerà subito e non gli permetterà di guardare i pezzi al microscopio o qualcosa di simile, e una sigaretta non assomiglia certo a una pianta.»

«Vero» ammise il padre. «Be, io dico solo che non abbiamo nessuna prova che le sue intenzioni non siano quelle. E che mi sembra probabile che invece lo siano.»

Stranamente, anche Ken pensò a un argomento simile, nell’intervallo tra quella visita e la successiva; e quando scese nella radura accanto alla casa dei Wing, con quattro scatole legate alla navicella, per prima cosa fece capire che voleva mettere dei minerali in una cassa che era priva di apparecchio refrigeratore. Indicandone poi una seconda, anch’essa senza refrigeratore, disse: «Oggetto… buono caldo… buono freddo.» I Wing si guardarono tra loro per un attimo; fu poi Edith a prendere la parola.

«Volete dire, oggetti che sono buoni sia al caldo che al freddo? Roba che non occorre mettere ne! refrigeratore?»

Nella frase c’erano molte parole nuove, ma Ken tentò lo stesso. «Sì. Caldo, buono» disse. Era ancora sospeso a mezzo metro dal terreno, poiché questa volta aveva legato il carico in modo da poterlo staccare senza essere costretto a scendere a terra. Ora si posò lentamente sul terreno, e cominciarono a succedere delle cose.

Il sottobosco, come capita spesso nelle foreste di conifere, era composto prevalentemente di aghi di pino. Intorno alla casa, in parte erano stati scopati via, ma il terreno era decisamente infiammabile. Naturalmente, nel momento in cui il piede di Ken, chiuso nello stivale d’acciaio, toccò lo strato di aghi secchi, si alzò una nube di fumo, e solo la sua rapidità nel sollevarsi nuovamente in aria evitò che s’incendiassero. Comunque, nessuno si sentì al sicuro finché Roger non ebbe versato sul luogo un secchio d’acqua.

Questo, però, fece nascere complicazioni di altro genere. Ken non ricordava di avere mai visto l’acqua, e certo non aveva mai visto delle attrezzature capaci di dispensare quantità di liquido apparentemente illimitate. Il rubinetto utilizzato per riempire il secchio suscitò in lui un notevole interesse; e in base a una sua richiesta, fatta in una mescolanza di segni e di parole inglesi, Roger riempì un altro secchio, lo posò sul muretto di cemento, ai piedi degli scalini davanti alla porta, e poi si allontanò. Ken, che in tal modo poteva esaminare l’oggetto senza entrare in contatto con altro, lo studiò a lungo; e terminò tuffando con cautela un manipolatore in quel curioso liquido trasparente. La nube di vapore che ne fuoriuscì lo sorprese quasi quanto la momentanea e intensa sensazione di freddo che gli giunse dal metallo, e si affrettò a tirarsi indietro. Cominciava a sospettare la natura di quel liquido, e mentalmente si tolse il cappello davanti a Feth. Il meccanico, ammesso che fosse veramente un meccanico, era davvero capace di pensare.

Alla fine, Ken venne installato sopra un forno all’aria aperta, nei pressi della casa; le scatole per i campioni vennero appoggiate per terra e i bambini scomparvero in varie direzioni per riempirle. Riprese la lezione di lingua, e per circa un’ora si fecero notevoli progressi. Alla fine di quel periodo, maestro e allievo rimasero piacevolmente sorpresi nel constatare di riuscire a scambiarsi frasi accessibili: frasi goffe e grezze, piene di circonlocuzioni, ma comprensibili. Sulla faccia di Wing padre si disegnò un sorriso quando se ne accorse; si disse che era giunto il momento di dare una leggera sorpresa al suo ospite, e forse di riuscire in tal modo a ricavarne qualche informazione utile. Ricordava cosa si erano detti lui e Don la sera prima, e pensando al figlio provò una sorta di tranquilla soddisfazione: quel tipo di soddisfazione che talvolta trasforma i padri in solenni seccature.

«Non mi hai fornito molte date» gli aveva detto Don «ma sono state sufficienti. Concordano con altre informazioni. L’intervallo tra l’invio del segnale e l’arrivo della sonda varia con un periodo di circa centoventi giorni, considerando i dati di vari anni. Naturalmente, in molti di questi «periodi» non sono arrivate sonde, ma il ciclo è quello: prima due giorni, e poi tre giorni. E centoventi giorni è il periodo sinodico di Mercurio: il tempo occorrente perché Mercurio raggiunga la Terra nel corso di due successive rivoluzioni attorno al sole. Ricordavo la posizione di Mercurio perché l’ho studiata a scuola questa primavera, e ho fatto alcuni calcoli: gli intervalli brevi tra segnalazione e arrivo cadevano quando Mercurio era più vicino, e quelli lunghi quando era dall’altra parte del sole, a una distanza circa doppia. A quanto pare, quelle sonde arrivano da Mercurio con un’accelerazione di circa una volta e un quarto quella di gravità.» Wing padre non era un fisico, ma aveva capito a sufficienza il discorso del figlio. Il concetto era diventato di dominio pubblico in collegamento con il volo degli aeroplani.

Aveva controllato le cifre di Don, che erano abbastanza facili da seguire, e gli erano sembrate giuste; dietro sua richiesta, il ragazzo aveva disegnato uno schema delle orbite dei pianeti interni del sistema solare, indicando su di esse la presente posizione dei pianeti stessi. In quel momento, Wing padre aveva la piantina in tasca.

Con l’extraterrestre avevano appena finito di parlare della parola «casa», a cui erano giunti per combinazione. Wing padre pensava di avere sufficientemente chiarito il concetto, e gli pareva che fosse giunto il tempo di mettere sul tavolo uno degli assi che fino a quel momento aveva tenuto nella manica.

Cominciò sollevando un braccio in modo da indicare l’intero orizzonte. «Terra» disse. Il sarriano ripeté la parola, senza fare gesti che indicassero che aveva capito. L’uomo pronunciò di nuovo la parola, pestando in terra il piede; poi prese un foglio del suo taccuino e fece uno schizzo del pianeta, disegnandolo come, secondo lui, doveva apparire dallo spazio. Come spiegazione finale, fece una sfera servendosi di un pezzetto di creta da modellare che aveva trovato nella stanza dei giochi e che aveva portato con sé. Indicò la sfera, il disegno e il terreno, ripetendo ogni volta la parola.

Ken comprese. Lo dimostrò sporgendosi oltre l’orlo del forno e usando la sua striscia metallica per disegnare a sua volta una figura sul terreno. Tracciò un disegno perfettamente riconoscibile del Sole e delle orbite dei primi tre pianeti. Sapeva che, così facendo, rischiava di andare al di là delle conoscenze astronomiche locali, ma il fatto che l’indigeno conoscesse la forma del proprio mondo era incoraggiante.

Wing padre si affrettò a tirare fuori il disegno di Don, che sostanzialmente era identico a quello di Ken, a parte il fatto che vi erano indicate anche l’orbita e la posizione di Marte. Passò vari minuti a dirgli il nome dei pianeti, chiarendo anche il significato della parola «pianeta». Poi fecero una sorta di gara; Ken aggiunse allo schema anche Giove e Saturno per scoprire fino a che punto giungessero le conoscenze astronomiche dell’indigeno. Wing padre disse il nome dei due pianeti, e aggiunse Urano, Nettuno e Plutone; Don, che fino a quel momento non aveva preso parte alla lezione, corresse l’orbita di Plutone in modo da farla passare attraverso quella di Nettuno e si mise ad aggiungere satelliti. Padre e figlio poi ritennero che la sfilza di suoni sarriani che giùnse dall’altoparlante significasse che erano rimasti sorpresi, e ne trassero una certa soddisfazione.

Ken era rimasto sorpreso per vari motivi.