Se Drai era ancora in ascolto, il silenzio degli ultimi istanti avrebbe ulteriormente destato i suoi sospetti, pensò Ken. Ma si rassegnò pensando che non poteva farci niente.
In realtà, ci fu poi tutto il tempo perché la sigaretta si consumasse, e questo fu merito di Ordon Lee. Feth aveva cercato di dare l’avviso non appena aveva capito quali fossero le intenzioni di Drai, ma, prima che potesse finire, l’altro l’aveva cacciato via dal quadro di comando e l’aveva sbattuto fino in fondo alla cabina.
Quando si era ripreso e si era rialzato, Feth si era visto puntare contro una pistola, il cui calcio a forma di disco era saldamente appoggiato al busto del trafficante.
«Allora, voialtri due state davvero meditando qualche trucco!» aveva detto Drai. «La cosa non mi sorprende. Lee, cercate il raggio portante di quella sonda e puntate su di essa!»
«Ma, signore… nell’atmosfera di Tre? Non resisteremo…»
«Resisteremo, sciocco schiumatore spaziale. Quel mio scienziato domestico l’ha sopportata per più di tre ore in una tuta corazzata, e vorreste farmi credere che lo scafo di questa nave non può sopportarla?»
«Ma gli oblò… e le piastre motrici esterne… e…»
«Ho detto di scendere laggiù! Ci sono dei finestrini anche in una tuta, e le piastre del fondo della nave sono state in grado di resistere al suolo del Pianeta Quattro. E non parlatemi della minaccia costituita dagli indigeni delle pianure azzurre! Sappiamo entrambi che lo scafo di questa nave è protetto anche nei riguardi del radar a modulazione di frequenza, oltre che dei raggi normali che gli indigeni usano… ho speso un occhio della testa per quel rivestimento, e ci ha permesso di passare inosservati in mezzo alla guardia costiera di Sarr. Su, muovete quelle leve!»
Ordon Lee si arrese, ma gli si leggeva sulla faccia l’insoddisfazione. Regolò la bussola con un’aria ancora leggermente speranzosa, che presto svanì quando si accorse che la sonda di Ken continuava a emettere la sua onda portante. Con la faccia scura, attivò un vettore di forza che aveva la medesima direzione. Al di là dell’oblò, la macchia di luce che era il Pianeta Tre cominciò a ingrandirsi.
Quando sul quadro di comando si accese l’indicatore che segnalava la presenza di pressione atmosferica esterna, Lee fermò la nave e rivolse al suo datore di lavoro un’occhiata titubante. Drai gli fece segno di scendere, con la canna della pistola.
Rassegnato, Lee alzò le spalle, accese i riscaldatori dello scafo, e cominciò a scendere lentamente nell’oceano di gelidi gas, brontolando tra sé e facendo una faccia da «ve l’avevo detto» ogni volta che sentiva scricchiolare una lastra della carenatura che si contraeva a causa del freddo.
Feth, ormai convinto di non potere più sperare niente dalla radio, dedicò la sua attenzione a uno degli oblò. Anche Drai lo imitò, con uno solo degli occhi, e non cambiò espressione nel constatare che Ken aveva detto la verità. Grandi montagne, aria velata dalla foschia, vegetazione verde, lucenti distese che ricordavano le grandi pianure azzurre i cui abitanti avevano abbattuto le sonde; c’era tutto quello che aveva detto lo scienziato: era illuminato debolmente dal pallido sole di quel sistema ma risultava chiaramente visibile.
Feth, senza badare alla pistola di Drai, si gettò all’improvviso verso la porta, gridando: «La macchina fotografica!» e scomparve in fondo al corridoio.
Drai posò la pistola. «Perché non siete anche voi come quei due?» domandò, rivolto al pilota. «Basta trovargli qualcosa d’interessante, e si dimenticano di qualsiasi pericolo che ci può essere nell’universo.»
Il pilota non rispose; e, a quanto pareva, Drai non si aspettava risposta, perché si avvicinò all’oblò senza attendere un istante. Poi, senza alzare gli occhi dal suo quadro di comando, Lee domandò in tono acido: «Se pensate che Ken si interessi soltanto del suo lavoro e di nient’altro, perché vi è venuta tutta questa voglia, all’improvviso, di andare a controllarlo?»
«Soprattutto perché non so bene quale sia il lavoro che gli interessa. Ditemi, Lee, secondo voi, di chi è la colpa, se soltanto oggi scendiamo per la prima volta su questo mondo che conosciamo da vent’anni?»
Il pilota non diede nessuna risposta a voce, ma girò un occhio in direzione del suo datore di lavoro e incontrò per un attimo il suo sguardo. Evidentemente, la domanda lo aveva spinto a pensare a qualcosa d’altro, e non solo a congelamenti e a piastre che si rompevano per il freddo; Laj Drai non era forse un genio, come lui stesso aveva avuto occasione di dire, ma la sua psicologia spicciola era di prima qualità.
La Karella continuò a scendere. Ormai la cima delle montagne era al livello dei suoi finestrini; sotto la nave si stendeva una distesa pressoché ininterrotta di verde, ma la bussola puntava verso di essa, senza esitazione. A una quota di centocinquanta metri si cominciarono a distinguere i singoli alberi, e in mezzo a essi il tetto della casa dei Wing. Non c’era traccia di Ken e della sua sonda, ma nessuno dei due sarriani che si trovavano nella cabina di comando ebbe alcun dubbio: si trattava della casa di cui aveva parlato lo scienziato. Entrambi si erano completamente dimenticati di Feth.
«Spostatevi di qualche metro, Lee. Voglio essere in grado di vedere dall’oblò. Mi pare di scorgere la tuta corazzata di Feth… sì. Il terreno è in discesa; scendiamo un poco al di sopra della casa, sul fianco della montagna. Tra queste piante si può vedere a una certa distanza.»
Il pilota obbedì in silenzio. Anche se udì l’urlo di Feth, che echeggiava nel corridoio, proveniente dalla cabina nella quale il meccanico scattava fotografie, non diede segno di averlo sentito; e in ogni caso le parole erano inudibili a causa dell’eco.
Il significato, comunque, divenne chiaro un istante più tardi. All’interno della nave, il rumore dello scafo che si faceva strada in mezzo ai rami non riusciva a penetrare; ma l’altro segno del suo arrivo era perfettamente percettibile. All’improvviso si era alzata una nube di fumo che aveva oscurato tutti gli oblò, e mentre Laj Drai faceva un passo indietro per la sorpresa, una lingua di fiamma guizzò verso l’alto, accarezzando la curva del grande scafo.
18
Feth non fu l’unico che gridò al pilota di fermarsi. Anche Ken gridò alla radio cose che mai avrebbe detto davanti ai suoi allievi; ma naturalmente non c’era nessuno, a bordo della nave, che lo ascoltasse. Wing padre e Don, che avevano capito al volo la causa della sua agitazione, si unirono al coro; la signora Wing, udendo quel chiasso, si affacciò alla finestra in tempo per vedere il cilindro nero e lucido posarsi fra gli alberi, a una cinquantina di metri di distanza dalla casa. Nessuno si stupì dell’accaduto… almeno, nessuno di coloro che stavano all’esterno della nave.
Don e suo padre si lanciarono di corsa verso la stalla, dove venivano conservati gli estintori portatili. La signora Wing uscì sulla veranda e gridò con voce un po allarmata: «Don, dove sono i bambini?»
La risposta giunse da sola prima che il padre o il figlio facesse in tempo a parlare, poiché Margie e Billy uscirono dai boschi, da direzioni opposte della radura, portando ancora con sé dei campioni di piante che, nel trambusto generale, si erano dimenticati di gettare via.
«Papà! Il fuoco!» gridò il bambino, non appena vide il padre.
«Lo so, Billy. Andate tutt’e due da vostra madre, cominciate a pompare, aiutatela a bagnare il terreno attorno alla casa. Non credo che il fuoco scenda verso di noi, a meno che non giri il vento, ma è meglio non correre rischi.»
«Dove sono Roger ed Edith?» domandò la signora Wing, rivolta ai bambini più piccoli.