Continuando a tenere un occhio sul misterioso liquido che si stendeva al di sotto della nave, Drai guardò con l’altro occhio il pilota.
«Lee» disse «salite a una quota di una quindicina di chilometri, e fate andare avanti la nave. La direzione non ha importanza, penso.»
Il pilota fece come ordinato, senza parlare. Non seguì la rotta più breve verso l’oceano, ma la velocità della nave, anche all’interno dell’atmosfera, era tale che pochi minuti più tardi si trovarono sopra una di quelle favoleggiate «pianure azzurre»: in venti anni sarriani, nessuno di loro aveva mai osato portarsi così vicino a esse.
Senza dire niente, il trafficante fece segno di scendere, e poco più tardi la nave si fermò a poche decine di metri al di sopra delle onde. Drai osservò a lungo la superficie che si stendeva sotto di lui, poi disse a Ken tre sole parole: «Voglio un campione.»
Lo scienziato rifletté un momento; poi recuperò la piccola bomba calorimetrica che aveva utilizzato per prelevare i campioni di ghiaccio del Pianeta Quattro, la svuotò dell’aria e chiuse la valvola. Si infilò l’armatura ed entrò nella camera di decompressione, dopo avere avvertito Lee di tenere quanto più ferma possibile la nave. Legò un filo alla bomba e un altro filo al comando della valvola; poi aprì il portello esterno e calò lentamente la bomba finché la differenza di peso non gli disse che ormai era immersa nel liquido. A questo punto Ken tirò il filo della valvola, attese un momento, recuperò la bomba, serrò ermeticamente la valvola e chiuse il portello esterno.
Naturalmente, la bomba esplose con violenza dopo pochi secondi, quando il solfo cessò di condensarsi sulla sua superficie. Ken ringraziò di non essersi tolto l’armatura… alcuni pezzi della bomba colpirono il metallo… e dopo qualche riflessione decise di fare un secondo tentativo. Questa volta calò una minuscola spugna di lana di vetro, sperando che il liquido misterioso avesse una sufficiente tensione superficiale. Infilò la spugna in un’altra bomba, e, con lo stesso metodo seguito per il campione marziano, determinò il peso molecolare della sostanza. Era più alto del precedente, ma poi notò i depositi di sali sulla spugna, e sottrasse dal calcolo il loro peso. Questa volta, il risultato non lasciava dubbi: la sostanza era davvero protossido d’idrogeno.
Per qualche istante, abbassò gli occhi sulla mobile distesa azzurra, chiedendosi quanto era profonda e che effetti avesse sulle condizioni del Pianeta dei Ghiacci. Poi si voltò, uscì dall’armatura… era rimasto al suo interno per l’intera durata dell’esperimento, dopo la prima esplosione… e andò a fare rapporto a Drai.
Il trafficante lo ascoltò in silenzio. Era ancora scosso dal crollo delle sue radicate convinzioni. Trascorsero alcuni minuti prima che parlasse, e quando lo fece, si limitò a dire: «Riportateci sul Pianeta Uno, Lee. Devo riflettere.»
Ken e Feth si guardarono negli occhi, cercando di non mostrare alcuna emozione.
20
«Be, pare proprio che siate riuscito a dargli il colpo di grazia» commentò Feth. Aveva l’aria infelice.
«Non capisco» disse Ken. Lo scienziato e il meccanico, in apparenza, erano indaffaratissimi a controllare le variazioni di temperatura dei vivai refrigerati.
«Ho faticato per anni ad alimentare in lui questa teoria degli abitanti delle pianure azzurre. Avevo capito anch’io che era solo una delle tante ipotesi possibili, ma a Drai non erano mai arrivate informazioni che potessero contraddirla. E ho fatto quello che ho potuto per tenere al minimo la produzione di tafacco.»
«Purché non cessasse mai del tutto…» lo interruppe Ken, con una certa durezza.
«Esatto. Voi adesso avete demolito la storia che spaventava Drai e che gli impediva di dedicarsi all’esplorazione del pianeta, e allo stesso tempo gli avete dato la possibilità di procurarsi dagli indigeni, con la forza e con le minacce, quello che gli interessa. Se avevate qualche idea, credo che abbia fatto completamente fiasco.»
«Oh, non direi affatto» disse Ken. «Avete capito anche voi cosa pensava Drai quando è sceso dalla nave.»
«Certo. Rimpiangeva gli anni sprecati, e i soldi spesi inutilmente in questo periodo, suppongo. Ma non gli durerà ancora per molto; ormai è da diversi giorni che Drai sta rimuginando tra sé la cosa. E quando gli sarà passata… Vedrete.»
Ken aveva continuato a riflettere mentre il meccanico si lamentava; ora lo interruppe bruscamente.
«A quel punto sarà ormai troppo tardi, e non potrà più fare niente. Feth, voglio che per qualche tempo facciate come vi dico, stando sulla fiducia. Vi prometto che non perderete la vostra dose. Avrò molto da fare nella camera di decompressione: per almeno un paio d’ore, immagino. Lee è ancora a bordo. Voglio che voi lo troviate e che lo teniate occupato in qualche maniera, almeno finché non avrò finito. Non voglio che veda cosa faccio. Voi lo conoscete da più tempo di me, e saprete trovare qualcosa d’interessante per lui. Non ammazzatemelo, però; più avanti avremo bisogno di lui.»
Feth studiò per vari secondi la faccia dello scienziato, senza capire. Saggiamente, Ken non disse altro, e lo lasciò a combattere da solo contro quella che era una paura perfettamente naturale. Rimase soddisfatto e non molto sorpreso quando infine il meccanico disse: «Benissimo» e scomparve in direzione della cabina di comando.
Ken attese un momento; poi, ragionevolmente sicuro di non essere interrotto, chiuse la porta interna della camera di decompressione, s’infilò una comune tuta spaziale e si dedicò alacremente al lavoro. Gli spiaceva di dovere sacrificare una parte dei suoi campioni vivi, ma si consolò pensando che poteva agevolmente sostituirli in futuro. Comunque, il vivaio da lui usato era quello che conteneva meno piante: il fuoco aveva interrotto i bambini umani prima che riuscissero a fare molti progressi. Si trattava comunque di preveggenza e non di fortuna; aveva deciso Ken quale usare, ancora prima di lasciare il pianeta.
Nella cabina di comando, Feth non incontrò grandi difficoltà a svolgere il compito che gli era assegnato. Tra lui e il pilota non c’era mai stata una grande amicizia, ma Feth non aveva mai nutrito nei riguardi di Lee l’odio che nutriva nei confronti del suo padrone. Lee era individuo con pochi scrupoli, e in passato ne aveva dato spesso la dimostrazione, ma Feth non aveva mai avuto gravi motivi per detestarlo. Di conseguenza non c’era niente di strano nel fatto che il meccanico entrasse in cabina di comando a fare quattro chiacchiere.
Il pilota, com’era sua abitudine fuori dell’orario di lavoro, stava leggendo; alla domanda su dove si trovasse Ken, il meccanico rispose che stava giocando con i suoi vegetali nella camera di decompressione.
«Perché usa sempre come laboratorio la camera pressurizzata?» si lamentò il pilota. «Gli ho già detto che non deve farlo. Ha il suo laboratorio nella base… perché non si porta laggiù i suoi vegetali?»
«Credo che sia per questo: pensa che se si ferma il refrigeratore, può svuotare la camera dell’aria che contiene, e riparare il guasto prima che i suoi campioni subiscano dei danni» rispose Feth. «Ma per averne la certezza, dovresti chiederlo a lui. Comunque, non preoccuparti; a bordo ci siamo solo noi tre, e se tu dovessi partire all’improvviso, le casse non sono molto grandi, e facciamo in fretta a portarle via.»
Con un brontolio, il pilota tornò a dedicarsi alla lettura; ma di tanto in tanto faceva correre l’occhio alla sua batteria di luci-spia. Notò che Ken svuotava la camera stagna e apriva il portello esterno, ma il fatto, evidentemente, non gli parve meritevole di attenzione. In realtà, neppure Feth sarebbe stato in grado di spiegargli perché Ken l’avesse fatto: a tale proposito, anzi, il meccanico aveva le sue perplessità.